TESTI

  • Adriano Icardi

    Cultore d'Arte già Senatore della Repubblica

    L’ARTE POETICA DI CONCETTO FUSILLO 

     
    Adriano Icardi

    Adriano Icardi

    Concetto Fusillo, pittore insigne della ricerca storica, del sogno e del colore, ha avuto una geniale, stupenda intuizione: collegare la gran vicenda politica e culturale di Federico II e la scuola poetica siciliana al percorso politico degli Aleramici del Monferrato nel cuore del Medioevo.
    Ed, in effetti, corrispondenze e collaborazioni istituzionali tra le due corti ci furono in molte occasioni, ma il vero punto d’incontro fu la bellissima storia d’amore tra l’imperatore Federico e Bianca Lancia del Monferrato.
    Da questo amore appassionato nacque Manfredi, figlio illegittimo ed imperatore di Sicilia e Napoli per breve periodo. “Biondo era e bello e di gentile aspetto…..”, così lo descrive Dante nel V canto del Purgatorio e lo rende immortale con versi altissimi ed indimenticabili.
    Anche Concetto Fusillo insegue storia e poesia con grande ed originale interpretazione artistica.
    Nascono quadri intensi e grandiosi, pieni di colori e di luci avvolgenti e contrastanti, ma soprattutto legati a profonde radici artistiche e culturali: quelle della Sicilia, amata e sempre presente, e quelle del Piemonte, o meglio del Monferrato con la sua storia, i castelli medioevali e i vigneti prosperosi, “l’esultate di castella e vigne suol d’Aleramo”, di carducciana memoria, ispirati come altri, già dipinti ed esposti con successo in mostre precedenti.
    Federico II aveva un grande, lungimirante disegno politico: unificare la Penisola già nella prima metà del 1200 ed oggi, a chiusura del 150° dell’Unità d’Italia, l’arte di concetto Fusillo è un omaggio sublime alla nostra Italia, alla sua storia millenaria, ricca di contrasti e contraddizioni violente, ma anche di incantevole bellezza e straordinaria, affascinante cultura.

    Tratto dal catalogo "Federico II, la scuola poetica siciliana e il Monferrato"- 2012

  • Alberto Ballerino

    Giornalista

    Fusillo resuscita le streghe
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  • Angelo Arata

    Storico e Critico d'Arte

    Percezioni dirette 

     
    Angelo Arata

    Angelo Arata

    “Tutto qui il suo segreto: era uno che vedeva e ha dipinto quello che vedeva…”. Così, attraverso le parole di un misterioso vecchio fiammingo, Dino Buzzati esponeva in un racconto affascinante e grottesco la sua chiave di lettura dell’opera di Hieronimus Bosch.
    Anche Concetto Fusillo sembra possedere questo dono: l’inchiostro che segna la carta in linee nervose e si spande talvolta in ombre inquietanti ci porta al nucleo segreto del fatto storico, ci mette a nudo il groviglio di sentimenti e passioni che fanno vibrare i cuori degli uomini, così come freme il pennino dell’artista.
    Il mondo che Concetto Fusillo esplora e rivela non ha forse gli aspetti tenebrosi di Bosch e non abbiamo l’impressione, come diceva l’umanista DominicusLampsonius nel 1575, che nell’opera emerga tutto quello che il più profondo recesso dell’Averno contiene”. Tuttavia, la mano di Fusillo ci rende efficacemente tutto il male che nei fatti quotidiani emerge, così come la dolcezza e la gioia che anche nei momenti più duri del passato, nei meandri oscuri della storia, sembrano scorrere limpide.
    Non mi stupisce che Concetto Fusillo ami frequentare le carte degli archivi e nella sua opera ci riproponga episodi dimenticati in faldoni deposti su polverosi scaffali: egli conosce la segreta alchimia che permette alle donne ed agli uomini di cui trattano quelle pagine antiche di liberarsi dalla loro prigione e spandersi vivi sui fogli dell’artista.
    Qui le sfumature brune dell’inchiostro paiono le stesse che ricoprivano fitte le pagine dei documenti, ma le parole si mutano in movimento e, talvolta riportate nella tavola, ondeggiano nell’aria insieme a forme e profili. Occhi e bocche sembrano pronunciarle qui ed ora per noi, figure umane si stagliano nelle loro vesti antiquate per farci capire che sono state vive. Di una vita palpitante come l’inchiostro che la ripropone.
    Anche queste ultime tavole che Concetto Fusillo ha voluto raccogliere ci riportano a episodi lontani nel tempo, in questo caso non molto, avvenuti nell’area tra Langa e Monferrato che l’artista tanto ama. Sono testimonianze che Pietro Reverdito, Pedrin, ha raccolto nel suo libro “La giusta parte. 1933/1945”, recentemente edito. Si tratta in gran parte di “percezioni dirette”, scritte a caldo, sull’onda delle emozioni provate dal bambino e poi dall’adolescente che si trova a maturare nei difficili anni del Fascismo, della Guerra mondiale ed infine della Resistenza.
    Questa realtà, inizialmente filtrata dalla coscienza lucida di Pedrin, si trasforma ancora una volta in qualcosa di tangibile, per noi qui ed oggi, grazie all’opera di Concetto Fusillo, che sa presentarci con tratti essenziali e vigorosi scorci di luoghi, espressioni umane, tensioni ideali e drammi quotidiani.
    Anche noi, dunque, abbiamo l’impressione di “vedere”. Ma quel che più conta è che questa visione “tragica” della storia non rimane soltanto comprensione razionale, un pò distaccata ed astratta.
    L’inchiostro della carta ci avvolge in spirali di emozioni e sentimenti profondi, facendoci reagire alla assurdità del vuoto cerimoniale fascista, alla sanguinosa realtà di una guerra non voluta, al doloroso scontro che il nazifascismo impone.

    Non dimenticare il passato, comprendere il messaggio che quegli uomini ci portano, per non ripetere gli errori che tanto male hanno fatto. Evitare che “la banalità del male” si insinui nella nostra vita di oggi, resa così rassicurante e così assurda dai mass-media.

    Le linee e le forme dell’inchiostro di Concetto Fusillo ci riportano in una dimensione più autentica ed austera, ci impongono un silenzio dolente e riflessivo. Ci dicono, con le parole di Giuseppe Ungaretti:

    Non gridate più

    Cessate d'uccidere i morti,
    Non gridate più, non gridate
    Se li volete ancora udire,
    Se sperate di non perire.
    Hanno l'impercettibile sussurro,
    Non fanno più rumore
    Del crescere dell'erba,
    Lieta dove non passa l'uomo.

    Testo per la cartella di litografie, "Percezioni dirette"

  • Angelo Mistrangelo

    Critico d'Arte e Giornalista

    DAGLI ARCHIVI DELLA MEMORIA 

    «Mappe, enciclopedie, l’oriente e l’occidente, regesti, dinastie, simboli, cosmi e cosmogonie offrono le pareti

    io che mi figuravo il Paradiso come una immensa biblioteca ingombra»

    Jorge Luis Borges

     
    Angelo Mistrangelo

    Angelo Mistrangelo

    Il senso profondo della visione e della rilettura dell’inesausta lotta tra il «Bene» e il «Male», tra le sottili angosce dell’uomo e il riscatto quotidiano, appartiene alla ricerca di Concetto Fusillo e al suo percorso all’interno degli archivi della memoria e della storia.

    Vi è nella dimensione culturale dell’artista di Lentini la strenua volontà di riscoprire, raccontare, definire gli aspetti più intensi dell’animo umano con il valore del «bene» e le sequenze del «male», il penetrante incedere della linea e la pulsante tensione delle immagini.

    Nulla è affidato al caso o a facili rispondenze compositive, ma - ha scritto Giovanna Romanelli nel 2009, per la mostra al Centro Pavesiano Museo Casa Natale di S.Stefano Belbo - «...il linguaggio dei segni e quello delle parole rafforzano il senso del testo pittorico e lo completano».

    E l’indagine condotta nella Biblioteca del Seminario e nell’Archivio Vescovile di Acqui Terme, offre una panorama di spunti, di riferimenti, di impressioni che legano le pagine di grafica, le ceramiche, le tele di Fusillo a una narrazione che scaturisce dallo studio dei registri parrocchiali, come il «Libro dei battesimi di Rivalta Bormida (1567-1632)», dove il prete poeta don Antonio Aburrati da Cassine ha dedicato un carme al medico Antonio della Torre: «...godi e ringrazia Iddio: ad insegnare/ a queste donne a partorire, infatti/ non furono dottori in medicina,/ bensì lo stesso Iddio pietoso...».

    Gli archivi rivelano, di capitolo in capitolo, un universo di episodi, rapporti, eventi che mettono in evidenza le vicende del tempo in cui sono stati redatti, mentre nei dipinti e nei disegni tutto è ricondotto all’attualità di una scrittura in cui si coglie una «originale interpretazione artistica»(Adriano Icardi) e una misura espressiva scandita dal fluire immediato, incisivo, vibrante «di un appunto rapido, sciolto, nervoso, guizzante nel segno, che non si abbandona mai alla casualità del gesto» (Clizia Orlando).

    Il gesto si apre in sequenze dalla sorprendente vitalità che esaltano il ritmo e l’incedere della figurazione, in una sorta di scavo della materia e dei sentimenti, di accensioni luminose e cromatiche, di volti grotteschi e case e chiese e svettanti campanili.

    Il segno filiforme, graffiato e graffiante, appena ammorbidito dall’inchiosto, diviene elemento determinante di una rappresentazione che richiama l’attenzione sui pellegrini in marcia o su maternità, angeli, demoni, prelati, monaci, suore, croci che si protendono come segnali altamente evocativi nell’incommensurabile spazio atmosferico.

    Le figure condotte dal vento di interiori passioni, la folla vista secondo una coralità di ascendenza verghiana e la moltitudine dei personaggi rientrano in una interpretazione che appare segnata dai versi del XIII canto dell’Inferno dantesco:«...e per la mesta/ selva saranno i nostri corpi appesi,/ ciascuno al prun de l’ombra sua molesta». E Fusillo affida a una complessa, espressionista, lacerante entità figurale, realizzata in ceramica e nodose radici, la forza di un lettura dei versi dell’Alighieri che va oltre alla gestualità pittorica per consegnare e consegnarci l’essenza di una desolata sofferenza, della solitudine, di un’immobilità che rivela ignote e ancestrali paure.

    Accanto s’incontra la ceramica Raku «Jesus Nazarenus rex Judeorom», «Il perdono di Don Bottero», «Il Vescovo Pedroca muore nell’epidemia», in un itinerario estremamente vivace che fa risaltare il dialogo con i «cercatori di tesori di Montechiaro», i villaggi e le strutture architettoniche medievali, l’ironia del «prete in maschera», le espressioni di uomini e donne riprese in «Chi ha rubato restituisca», sino alla «speranza» di una nuova stagione della vita e della società contemporanea.

    La pittura di Fusillo è, quindi, testimoniaza, rivisitazione e documento di un impegno che dalla scuola poetica siciliana al Monferrato, da Cesare Pavese alle opere esposte nel Palazzo Vescovile di Acqui Terme, sottolinea il cammino di un’esperienza in continua evoluzione tecnica e concettuale.

    Filosofia della parola e dell’immagine, storia e suggestione della raffigurazione, emozioni e interiorità rivelata, concorrono a creare il suggestivo scenario della sua indagine conoscitiva, che il segno fa emergere alla luce di una sottesa spiritualità, di una ricerca che «non gl’impedisce - sottolinea Carlo Prosperi - di discernere il bene dal male, il reale dal fantastico».

    Segno, colore, emozioni, trasformano i lavori in un racconto percorso da impercettibili fremiti, dalle lettere di un personale alfabeto, dalla poesia.

  • Arturo Vercellino

    Critico d'Arte

    I vinti di Fusillo 

     
    Arturo Vercellino

    Arturo Vercellino

    Di Concetto Fusillo conoscevo la pittura di paesaggio, tema al quale l’artista ha dedicato gran parte dei suoi interessi, insistendo sulla sensibilità del colore che definiva le forme, su spaccati di caseggiati semidistrutti, ricordi di una quiete domestica perduta e pretesto per realizzare sapienti accordi tonali.
    L’ultimo viaggio pittorico nel Suol d’Aleramo (L’altra medicina, Grand Hotel Nuove Terme, 18 aprile-2 maggio 2009) ha visto impegnato Fusillo in una interpretazione tragico-visionaria del destino dell’uomo, ispirato da documenti di antichi processi (sec. XVI e sec. XVII) che l’impareggiabile Carlo Prosperi ha sottratto al silenzio, facendoci ripercorrere le riconoscibili strade dei nostri paesi e riportandoci al clima di miseria e superstizione del passato.
    Un percorso costellato di creature che appaiono sotto una luce inquietante e sulfurea, in spazi che ne denotano la sofferenza e l’angoscia ma anche il dibattersi in un incontenibile sforzo di sopravvivenza. Non mancano riferimenti al territorio con ruderi, torri, castelli, anche se Fusillo concentra lo sguardo sull’individuo, sulla sua situazione di impotenza e debolezza, in un mondo dominato da fame, superstizione, ignoranza e violenza, in cui si mescolano finemente l’ironia leggera, la furberia scaltra, la farsa impertinente. Egli rivisita questo universo in chiave di allucinata sensibilità espressionistica, caricando di orrore e sfrenata tensione  i personaggi immersi in bagliori fosforescenti, con gli occhi spiritati che brillano su facce ossute, distorte o, comunque, fortemente caratterizzate. I corpi ripugnanti, come sfregiati dalla consuetudine al vizio e alla povertà, rappresentano una realtà spietata che solo con il ricorso al brutto si può testimoniare. Vi è presente l’intera gamma di ghigni e distorsioni caricaturali a rappresentare tutte le malvagità e le bassezze.
    Nelle grandi tele (olio), di notevole impatto visivo, non ci sono solo vortici, grida, vertigini, ma tutta un’umanità che si propone, un discorso continuo, una catena di gesti. La magia e la forza di una pittura impetuosa si avvale di un senso del colore sia emotivo, sia spirituale: uno stile geniale e semplice, originale e commovente. L’intensità delle paste, audaci mescolanze di tinte di natura madreperlacea spezzate da colori stridenti, diventa un valore costitutivo delle immagini. L’umore sarcastico, spesso inzuppato in atmosfere grottesche, genera vere e proprie maschere di ascendenza ensoriana che, in quel loro raggrumarsi e sfilacciarsi, diventano l’emblema dello scadimento dell’uomo, si caricano di inquietudini e di aggressive sollecitazioni.
    È il disegno, che Fusillo ha nel sangue, la base imprescindibile della sua ricerca: un tratto secco, nervoso ma nitido, senza incertezze e tentennamenti. Un retroterra fondamentale dal quale nasce la sua galleria, i cui protagonisti sono presunte streghe, praticoni, guaritori, indovini, banditi, assassini, violentatori, ubriaconi, dotti ciarlatani che giurano sull’efficienza di pozioni o sentono la presenza di spiriti e diavoli.
    Le stesse vicende costituiscono lo spunto per una splendida serie di incisioni (acquaforte-acquatinta-puntasecca) che non può essere solo considerata una sorta di prolungamento dell’opera pittorica.  La qualità è considerevole e senti che l’artista, con fare passionale ma sicuro, ti offre la sua personalità, i segreti e le conquiste, frugando fino in fondo all’anima.
    Quella di Fusillo non è soltanto arte realista che trae spunto dal documentario storico, forse non è nemmeno espressionista, considerando che nonostante l’esasperazione e la virulenza deformante, non produce immagini integralmente soggettive; è, piuttosto, talento capace di forgiare rappresentazioni di raccapricciante esemplarità per tenere desto il senso di allarme sulla condizione umana.

    Testo per il giornale "L'ANCORA"

  • Carlo Pesce

    Critico d'Arte, Docente di materie letterarie

    Ruderi 

    E questa ov’io m’avvolgo
    nebbia di verno immondo
    è il cenere d’un mondo
    che forse un giorno fu.

    Giosuè Carducci, Tedio invernale

     
    Carlo Pesce

    Carlo Pesce

    Concetto Fusillo e nel mondo dell’arte dalla fine degli anni Sessanta. Ha esposto in molte città italiane e i suoi lavori si trovano in numerose collezioni pubbliche e private.
    Egli e da sempre stato prima di tutto pittore.
    All’inizio della carriera, la sua pittura faceva riferimento a un paesaggio scarno nel quale erano proposte sequenze di strutture abitative nelle quali la presenza dell’uomo era semplicemente evocata.
    I colori di questi lavori erano particolarmente vivi, quasi innaturali e lasciavano nell’osservatore una sensazione di forza, rendendo comprensibile un rapporto con la natura quasi primordiale, tipico di chi e abituato a convivere con gli estremi. Eppure Fusillo non e uomo di estremi, la sua formazione e avvenuta al centro del Mediterraneo, in una sorta di ombelico intorno al quale si trovano le sintesi di storie millenarie e, nel bene e nel male, si sono affacciate tutte le più importanti civiltà che hanno vissuto in quest’area del mondo. Forse sta proprio in questa contraddizione il senso di una pittura molto caratterizzata, tutta votata alla descrizione della terra.
    Fusillo e diventato un paesaggista, e, sostanzialmente, rimane tale anche adesso.
    Tornando a riflettere sugli esordi, Fusillo e stato ugualmente paesaggista anche nella brevissima parentesi nella quale racconta il cristianesimo. Non credo che alla base di questi soggetti ci sia la Volontà ispirata alla devozione del credente, soprattutto nel momento in cui il pittore di Lentini ha cominciato a realizzare delle crocifissioni. Possiamo supporre che sia partito da una pessimistica concezione del dolore, un dolore simbolizzato dal martirio di Gesù Cristo che diventa emblema dell’impossibilita di vivere. C’e qualcosa di romantico in queste crocifissioni, qualcosa che ci porta a riflettere su un pessimismo di derivazione schopenhaueriana per il quale la vita coi suoi dolori, le sue preoccupazioni e le sue miserie senza fine, e un male. L’influenza di questo modo di affrontare l’argomento fu tale che, anche nel paesaggio tout court, si e manifestata una citazione della crocifissione: ciò avviene nel momento in cui nello spazio “naturalistico” e rappresentato del filo spinato che lo delimita. Proprio quest’ultimo diventa un’esplicitazione della corona di spine che, anziché essere posta sul capo di Cristo, e premuta sulla terra.

    Accanto a questo paesaggismo più “evidente”, dalla meta degli anni Settanta, e ravvisabile anche un filone prettamente informale, un filone che tende a valorizzare la materia, a costruire spazi mettendo insieme elementi di recupero, insistendo su particolari che sembrano essere recepiti in forma di brandello. E probabilmente in questo momento che si afferma la “poetica del rudere”, la poetica dell’elemento che perde la possibilità di essere parte di una costruzione e si disperde in frammenti.
    Alla fine di questa fase trascorre un periodo durante il quale Concetto Fusillo decide di non esporre più. Ovviamente questo non significa che il pittore termini di lavorare. Anzi, non più assillato dal dover produrre per esporre, si dedica all’attività artistica in modo continuo, in particolare al disegno. I soggetti sono perfezionati, lo studio diventa assiduo, arricchito da una sempre più convinta adesione alla grafica. Proprio la grafica assume un’importanza decisiva. La produzione di cartelle – con cinque o sei fogli – e un modo per affinare una tecnica che gli offrirà l’opportunità di verificare gli esiti di una ricerca molto rigorosa e raffinata. Ugualmente interessante e la produzione plastica – bronzi e ceramiche – che riceve numerose attenzioni da parte dell’artista proprio da questo periodo. A tale attività sarà dedicata una rassegna a Treville, piccolo centro vicino a Casale Monferrato, una rassegna che dimostra la completezza artistica di Concetto Fusillo.
    La precedente mostra di Acqui Terme segna il ritorno dell’artista al contatto diretto con il pubblico. Questa nuova rassegna presenta paesaggi che contengono tutti i caratteri dell’arte di Fusillo – ruderi, torri, presenze di esseri celesti –. L’evoluzione e notevole, e come se il pittore avesse maturato una serie di dati e che ora riesca a proporli più sinteticamente. Essi sono percepiti in modo più evanescente, quasi fossero depurati attraverso un filtro intellettualistico impostato sul filo della memoria. E’ proprio allora che la memoria diventa il centro della rappresentazione della fase corrente dell’arte fusilliana. Attraverso il recupero di documenti di epoca moderna Fusillo ricostruisce un mondo che non esiste più, soffocato dalla polvere della Storia. E un’avventura straordinaria nella quale in modo pluridisciplinare si mischiano alcune materie umanistiche. Fusillo spulcia le carte contenute nei faldoni degli archivi pubblici, trova delle storie di gente comune, storie di violenza, di inganno, di furto, di magia, storie approdate nelle aule dei tribunali e perdute da secoli. Egli s’immagina che cosa fosse successo e lo interpreta attraverso una pittura che e sempre più espressionista, una pittura che per la prima volta prende in considerazione la figura umana e la stravolge, aumentando la smorfia di un ghigno, il sottecchi di uno sguardo, il contorcimento di un gesto. Il paesaggio rimane sullo sfondo in forma di citazione, riprendendo la realtà dei luoghi dove sono avvenute queste piccole storie tragiche dimenticate da secoli. Questa fase e iniziata un paio di anni fa con la mostra all’Archivio Storico di Asti e ora continua con queste figure raccapriccianti che emergono come in un incubo dai meandri della Storia.

    Tratto dal catalogo della mostra "L'altra Medicina, Magia superstizione Cronaca sul Suol D'Aleramo" 2009

    Echi di paesaggi lontani 

     

    Chi conosce la pittura di Concetto Fusillo percepisce immediatamente l’importanza di queste sculture all’interno del suo percorso culturale. Probabilmente da sempre, lui come ogni artista hanno cercato di oltrepassare il limite prettamente pittorico che impediva la riproduzione tridimensionale della realtà attraverso la matematicizzazione dello spazio, attraverso il chiaroscuro, attraverso espedienti tecnici che potessero, in qualche maniera, dare una soluzione a un problema di difficilissima gestione.
    Per questo, l’approccio adottato da molti artisti era quello di separare nettamente la pittura dalla scultura, lavorando in modi completamente differenti, solo talvolta complementari. Questa tendenza ebbe il suo acme presso le Accademie che, con il loro rigore, ritenevano assolutamente inconcepibile qualsiasi contaminazione, identificando e separando ciò che era pittura da ciò che era scultura. Nel momento in cui la critica decide di individuare un’inversione di tendenza a questa prassi si rivolge ancora una volta al Novecento, e più precisamente al momento di una visita fatta da Henri Matisse a Auguste Rodin. Fu in quel frangente che si cambiò la propensione separativa propugnata dall’Accademia, fu in quel momento che si cominciò - sulla scia della riflessione di Matisse - a pensare a una corretta interazione, a una pacifica invasione di campi, facendo sì che la scultura diventasse terreno di sperimentazione pittorica e viceversa.
    Oggi - come ricorda Francesco Poli - “scultura” è un temine che viene utilizzato per identificare non solo le opere realizzate con tecniche e materiali tradizionali ma anche, in un’accezione ben più vasta, per ogni altro tipo di lavoro con caratteristiche tridimensionali effettive, dalle costruzioni e assemblaggi, agli oggetti, alle installazioni spaziali agli ambienti e agli interventi in contesti esterni.
    Questa mostra si colloca sul piano tradizionale per quanto riguarda i materiali (bronzo, marmo, ceramica) e nello stesso tempo risponde a un’esigenza fortemente contemporanea di estrapolazione di parti pittoriche tipiche della produzione di Fusillo ripensate in chiave tridimensionale.
    In effetti, la peculiarità di questa serie di lavori è proprio quella di essere frammento di paesaggio, elemento essenziale nella pittura di Concetto Fusillo, un brandello strappato alla tela e rielaborato in chiave plastica. Fusillo è allora sostanzialmente un paesaggista: anche nell’ultima serie di lavori, lavori narrativi in cui interpreta dei documenti antichi rendendoli immagine, la presenza di un paesaggio è fondamentale. In questo caso esso è talvolta ben riconoscibile, proprio per una più puntuale esigenza “topografica”; il più spesso è invece un elemento di fantasia, un “capriccio” assorbito attraverso una costante peregrinazione attraverso l’Italia, fatto proprio con un’osservazione apparentemente distratta e rielaborato come parte di sé. È però un qualcosa di riconoscibile, un qualcosa del quale sembra cogliersi un particolare, un frammento che lo rende anche patrimonio di chi osserva. È quasi un’impressione che tende a diventare liquida, che sembra sciogliersi sulla scia di un ricordo. Questo carattere appartiene a ciascuna delle sculture presentate a Treville.
    Nelle maioliche la sensazione è più dissolutiva, nel senso che la materia stessa si presta maggiormente a assorbire gli aspetti brumosi della memoria: evanescenza dei limiti e liquidità dei colori. Quasi contraddittoriamente è il colore a prevalere sulla materia; essa si comprime in forma di stalattite, si arrotonda nelle parti più alte, vive di un gocciolare che più la allontana dalla realtà, più l’avvicina all’assoluto.
    I bronzi sono strutture materiche particolarmente ricche. Dotato di una maggiore consistenza naturale, il paesaggio fuso nel bronzo assume delle connotazioni antiche, sembra emergere dal passato, da un’antichità archeologica che ha subito il lento lavorio dell’acqua, del vento, del sole. Per questo la superficie bronzea si ossida lasciando spazio a un verde opaco che si sovrappone alle porosità della fusione, che fuoriesce come una muffa dal metallo stesso lottando proditoriamente e imponendosi come pura essenza vitale.
    Infine la pietra, con il suo biancheggiare trasparente. In quel contesto i paesaggi sono più definiti, vivono della stessa sostanza che crea nel silenzio delle colline e delle montagne certi villaggi, oggi dominati dai resti di antichi manieri, di ruderi che un tempo esprimevano arroganza e potenza. Ci si trova di fronte a frammenti di costruzioni rupestri, a ingressi di grotte delle quali si intuisce la muta possibilità abitativa.
    La poesia dei luoghi pervade le cose e le materie. Lo stesso edificio che ospita questa mostra cessa di essere quello che è, cioè una chiesa sconsacrata, e diventa essenza di un paesaggio millenario, parte di quella scultura creata nei secoli dall’uomo. La percezione è completa, si ha la sensazione di un’appartenenza, cioè di essere parte di quella stessa plastica proposta da Fusillo. Le cose diventano arte, noi diventiamo cose, noi diventiamo arte.

    Dal catalogo della mostra "Echi di paesaggi lontani" 2007-Treville - Mostra di sculture

    OSSERVARE DA LONTANO 

    La storia è un incubo dal quale cerco di svegliarmi.
    James Joyce, Ulisse

     
    Carlo Pesce

    Carlo Pesce

    ...tra stroria...
    Sir Walter Scott, nella famosa lettera dedicatoria al reverendo Dryasdust, lettera che introduceva il suo Ivanhoe, offriva precise indicazioni sul rapporto di verosimiglianza tra la Storia narrata e la Storia “vera”. Da un certo punto di vista, lo scrittore scozzese rivendicava una precisa libertà di azione intellettuale che si concretizzava in una sorta di modernizzazione del gusto, attraverso un percorso che, consciamente, prendeva le distanze da una ricostruzione filologica di linguaggio e di costumi. Egli infatti afferma che “per suscitare un qualsiasi interesse è necessario che il soggetto prescelto sia, per così dire, tradotto nei modi e nel linguaggio del tempo in cui viviamo”1.
    Scott, vissuto a cavallo tra Settecento e Ottocento, fu un grande estimatore della tradizione popolare scozzese. È considerato l’iniziatore del romanzo storico, e nel suo celebre Ivanhoe, pubblicato nel 1820, presenta lo scontro tra normanni e sassoni al tempo della terza crociata, cui partecipò Riccardo Cuor di Leone.
    Alessandro Manzoni, poco dopo, sulla scia di una scelta analoga, forse ispirata da una volontà simile a quella di Scott, iniziò la prima stesura del Fermo e Lucia, cui seguirà nel 1827 la pubblicazione della prima edizione dei Promessi Sposi e nel 1840 la seconda definitiva redazione, illustrata da Francesco Gonin.
    Lasciando da parte le fondamentali analisi, soprattutto di italianistica, che possono essere operate confrontando le varie versioni, si può notare che uno degli elementi dal quale il Manzoni non prescinde è la Storia, secondo alcuni critici autentica protagonista del romanzo. Scrive Luigi Russo: “se davvero di un protagonista sensibile si vuol parlare, se non altro per l’uso metaforico della conversazione, e sempre col sottointeso che il protagonista vero è il sentimento, lo stato d’animo dello scrittore, bisognerebbe pensare e sostenere che il protagonista vero e immanente di ogni pagina è il Seicento” (2.
    Del romanzo di Manzoni sappiamo tutto, e è inutile riassumerne la vicenda, un susseguirsi di immagini e volti che si sono stratificati nella nostra fantasia grazie anche alle incisioni del Gonin (3.
    Il Gonin costruisce le sue tavole con un gusto particolare, calcando su aspetti di verosimiglianza, gli stessi cui faceva riferimento Walter Scott e sui quali lavorerà anche il Manzoni.
    Per un pittore come Concetto Fusillo che si accosta alla pittura di storia, raccontando vicende accadute più o meno nello stesso periodo in cui è ambientata la vicenda di Renzo e Lucia, diventa quasi scontato il riferimento all’impresa del Gonin. Fusillo ha elaborato un complesso sistema illustrativo che ha il suo concepimento nella lettura di alcuni documenti riguardanti atti criminali che si sono verificati nella campagne piemontesi durante il XVI – XIX secolo. Da questi atti emergono delle storie di vita quotidiana, storie di soprusi e di violenza, truffe, furti e malversazioni, piuttosto comuni in un epoca difficile come lo fu l’epoca moderna (4. Fusillo fotografa un momento di quelle storie, lo riempie di colori forti, lo fa brillare nel grigiore polveroso che compatta le vicende degli uomini. I volti di questi protagonisti sono stravolti, sui loro visi si dipinge l’angoscia di un ritorno dall’aldilà nel quale erano sepolti questi personaggi. Emerge una visione infernale di dannati disarticolati che sembrano bestemmiare per i loro peccati, per la crudezza spellata della loro vicenda terrena che torna a manifestarsi, immortalata nella pittura di un contemporaneo, lontanissimo dal loro modo di essere stati. Il vero miracolo è che, inaspettatamente, costoro, uomini e donne con un nome, saranno immortali fino a quando esiterà la loro memoria, aggrappata alle tele di Concetto Fusillo. È incredibile che però questo spesso avvenga grazie a un male perpetrato: il peccatore, il reo, grazie al propri delitto si trasforma in protagonista, lasciando intravedere la bontà di un male che, da che mondo è mondo, paga (5).

    ...e paesaggio.
    La Storia si staglia su un paesaggio. Per questo il paesaggio diventa stilema di Fusillo, l’elemento unificante nella sua economia pittorica. Lo sfondo paesaggistico di questo pittore è fatto di rovine, di strutture fatiscenti, di villaggi rupestri che, in qualche modo, similmente a quanto avviene nei lavori di cui si è parlato in precedenza, riemergono come spettri tra le colline, corpi senz’anima che, disabitati, trasmettono la loro angoscia di scheletri fracassati mai sepolti.
    Le rovine di Fusillo sono luoghi di scontro tra angeli e demoni, luoghi nei quali si celebrano riti di cospirazione, di comunione con il male, di silenzi interrotti da grida di dolore. Fusillo racconta storie di uomini senza farli mai apparire, infatti, i suoi paesaggi “classici” sono privi di presenze umane, essi rimangono nascosti e aspettano (6. Aspettano, come gli eroi di certi film, il combattimento definitivo, la resa dei conti che potrà dannarli al supplizio eterno o li eternerà come vincitori. Qui la Storia non esiste più, Fusillo agisce su un paesaggio interiore, un non-luogo nel quale si incontrano i colori della memoria, le sensazioni di una vita, le strutture portanti della propria cultura e del proprio sapere. È un paesaggio che talvolta si perde nell’astrazione dei particolari, che viene compreso solo se osservato nella sua interezza, attraverso una narrazione della quale, come in un teatro, viene fornito uno sfondo sul quale si muovono centomila personaggi che costruiscono, attraverso le proprie storie, una storia più grande.

    1 - Walter Scott, Ivanhoe, trad. di Laura Ferrua, Garzanti, Milano, 2000.

    2 - Luigi Russo, Ritratti e disegni storici, Laterza, Bari, 1946.

    3 - Pittore e illustratore nato a Torino nel 1808. Oltre alle illustrazioni dei Promessi Sposi, cui è affidata la fama, affrescò con Carlo Bellosio alcune sale di palazzo Reale a Torino e del castello di Racconigi.

    4 - Natale Perego, Homini de mala vita, Cattaneo editore, Como, 2001. Nel saggio si suppone che nell’area brianzola, nel primi dieci anni del Seicento, si potessero verificare 60/100 omicidi all’anno. Un’enormità rispetto alla situazione attuale.

    5 - Cfr. Guidoni, grassatori e tagliagole nelle campagne astigiane, a cura di Gino Bogliolo, opere di Concetto Fusillo, Asti, Archivio di Stato, 19 gennaio/9 febbraio 2007, Reverdito edizioni d’arte, Trento, 2007.

    6 - Cfr. Concetto Fusillo, opere 2002/2005, a cura di Carlo Pesce, Acqui Terme, 23 luglio/7 agosto 2005, Reverdito edizioni d’arte, Trento, 2005.

    Tratto dal catalogo della mostra "TRA STORIA E PAESAGGIO" 2007

    Guidono Grasssatori e Tagliagole nelle campagne Astigiane 

     

    Il corpus delle incisioni – acqueforti e acquetinte - illustra dieci scene (il biscazziere, il blasfemo, la strega, il fornicatore, la fedifraga, l’infanticida, il grassatore, il violento, il brigante, l’omicida). Immediatamente vengono in mente quelle serie di incisioni di Callot o di Goya sulle rovine della guerra, non tanto per un qualche riferimento stilistico né per il tema trattato – un tema, quello della guerra che affiora soltanto marginalmente nei lavori di Fusillo – quanto per le situazioni, immerse nelle microvicende della Storia e, ovviamente, per la tecnica. In questo caso Concetto Fusillo si colloca sulla scia di quei grandi narratori che hanno costruito un gruppo di illustrazioni capaci di far rivivere delle vicende che altrimenti sarebbero rimaste solo puro esercizio di fantasia.
    Le opere in questione non possono essere percepite singolarmente, sono quasi consequenziali l’una all’altra, assumono un valore enorme proprio se concepite come qualcosa di unico. È la serie che è opera, una serie che  potrebbe intitolarsi, per esempio, “Violenza e Giustizia nell’Astegiana”. Ogni incisione è strutturata individuando un momento della vicenda che ruota intorno al fatto di aver commesso un delitto. In alcuni casi si tratta di episodi che assumono  un’ulteriore valenza storica, che individuano delle
    azioni che oggi hanno un valore decisamente minore o, addirittura
    non sono più percepite come delitti; in altri, al contrario,
    si assiste ugualmente alla manifestazione di
     di quella ferocia che riporta a certi
    casi giudiziari che anche ai tempi
    nostri sconvolgono
    l’opinione pubblica.

    Tratto dalla cartella di acqueforti "Guidono Grasssatori e Tagliagole nelle campagne Astigiane" 2007

  • Carlo Prosperi

    Storico e Critico d'Arte

    Nello specchio del Seicento: ovvero l’archivio pittura di Concetto Fusillo 

     
    Carlo Prosperi

    Carlo Prosperi

    Gli archivi storici sono dei veri e propri réservoirs di storie. Dimenticate, per lo più, o sconosciute, come i loro protagonisti. Storie spesso incompiute, scampoli e frammenti di vita di cui non restano che gli echi affidati alla penna di scribi non di rado anonimi, ma anche di cancellieri curiali, di uomini di chiesa o di notai adusi a racchiudere in formule stereotipate e, talora, negli schemi omologanti di un’astratta casistica la debordante ricchezza dell’esistenza umana. Ne escono documenti a volte patetici nella loro povertà espressiva, nella loro esangue ripetitività: gusci vuoti, ossi di seppia, scie di lumaca. Nondimeno, di quando in quando, anche l’arida e anodina scrittura di quegli scrivani di professione si anima e si accende d’improvvisi bagliori. Il latino cede a tratti il posto al volgare o, meglio, a un italiano di maniera dietro il quale s’avvertono però le cadenze della parlata dialettale, la sapienza e la sapidità di una lingua prossima ancora alla radicalità dell’esistenza, all’humus da cui è germinata. Si tratta di parole o di espressioni da cui tracima ancora il colore dei luoghi e dei tempi, per cui funzionano tuttora da scandagli rivelatori che ci consentono di cogliere, al vivo, lo spirito della cultura popolare. L’umiltà, l’autenticità della vita. E, insieme, tradizioni che vengono da lontano: dalla notte dei tempi.
    Certo, quelle voci che promanano da fogli spesso “dilavati e graffiati” sono per lo più contraffatte o filtrano pur sempre attraverso le serrate maglie della cultura ufficiale, ma la mimesi a volte ha il sopravvento. Lo si intuisce da certe innaturali torsioni del periodare, dalla schiettezza stessa del linguaggio oppure dall’uso di eufemismi e metafore che, lungi dall’edulcorare la realtà, ne svelano inediti aspetti e ne dilatano, insieme, gli orizzonti. Tra materiale e spirituale allora non è più possibile individuare una linea netta di distinzione. La natura non è più (o non è ancora) quella, misurabile e definita, della nascente scienza sperimentale: non è, in altre parole, mera res extensa. La natura è lo spazio per eccellenza del magico e del sacro. Misteriosi flussi di energia l’attraversano, segrete analogie legano tra loro le cose, forze arcane non sempre benigne le governano. Per tenerle a bada, si ricorre in genere ai servigi del clero, ai voti, alle preghiere, a particolari rituali religiosi o scaramantici. Gli esorcisti praticano gli scongiuri contro gli spiriti maligni e le ossessioni demoniache. Le rogazioni prevedono solenni suppliche fatte dal popolo sotto la guida dei sacerdoti in apposite processioni, per chiedere al Signore la liberazione dalla sua ira e dalle insidie del diavolo, ma anche dal fulmine e dalla tempesta. E soprattutto a peste, fame et bello [dalla peste, dalla fame e dalla guerra]: tre dei formidabili cavalieri dell’Apocalisse.
    La Chiesa, implicitamente, riconosce dunque la possibilità di dominare le forze del male e di ingraziarsi le potenze del bene. Ma il clero non detiene il monopolio dei rimedi, anzi bolla e condanna come superstiziose certe pratiche – di sapore paganeggiante – che, bene o male, si propongono di rispondere ad alcuni fondamentali bisogni umani. L’uomo è restio ad accettare l’imprevedibile e, nella sua ansia di sicurezza, s’illude di potere ridurre, entro certi limiti, l’incontrollabilità degli eventi. Le fiabe - racconti popolari per antonomasia - abbondano di oggetti magici e di persone dotate di poteri straordinari. Allo stesso modo, ricorrendo alla magia e al sortilegio, l’uomo del popolo (e non lui solo) spera di conoscere il futuro, di influenzare i sentimenti e i comportamenti altrui, di procurarsi la buona sorte, di stornare la malattia e di mantenere la salute. Si tratta solo di apprendere le giuste tecniche, le formule adeguate, le procedure corrette. O di rivolgersi – in alternativa – a chi già ne dispone. La magia apre la strada ai tesori nascosti, guarisce dai malanni, è in grado di governare i fenomeni atmosferici,  consente di esaudire i propri desideri (erotici), di divinare il futuro. Per quanto riguarda le pratiche terapeutiche, si nota una curiosa commistione fra tradizioni magiche - di norma appannaggio delle “fattucchiere” -, ricette desunte dalla farmacopea popolare e rituali più propriamente esorcistici. Non c’è troppa differenza tra i bollettini e i “brevi” somministrati a volte da religiosi e le ricette “mediche”, le formule o gli incantesimi dispensati da vecchiette solitarie, in genere vedove o zitelle di dubbia reputazione.  Ma questo non deve stupire, perché siamo davanti ad una sorta di sincretismo che, bene o male, riconosce un’affinità tra i poteri magici della “strega”, la sapienza antica della “donna delle erbe” e il magistero sacramentale del sacerdote. Tutti e tre sono personaggi a loro modo carismatici e taumaturgici, che hanno dimestichezza con forze occulte – siano esse magiche, naturali e soprannaturali – sconosciute ai più.
    D’altra parte, il persistente successo e, per così dire, l’ampia fortuna della magia terapeutica e, in genere, dell’“altra medicina” si spiegano soprattutto con la scarsa efficacia - ed è chiaramente un eufemismo - di quella ufficiale o “colta”, ferma da secoli alle teorie galeniche. Non è certo un caso se per tanto tempo la figura del medico è stata oggetto di satira ed ha fornito innumerevoli spunti ai commediografi. Né c’è troppo da meravigliarsi se tra fattucchiere più o meno dichiarate e “fisici” (così allora si chiamavano i medici laureati) di mestiere si aprisse uno spazio non angusto per l’inventiva e per l’iniziativa di ciarlatani, imbonitori e truffatori di vario genere, lesti a spacciare per miracolosi intrugli o sostanze di nessuna efficacia. Allo stesso modo, per aver successo con le donne, in luogo dell’elisir d’amore, ineffabili precursori del dottor Dulcamara escogitano ricette tanto ingegnose quanto improponibili.  E di cattivo gusto.
    Non c’è dunque da stupirsi se le persone dotate di particolari carismi o che praticano, comunque, la magia – sia essa cerimoniale, terapeutica o amatoria – destano sospetti e paura nella gente comune. Le “fattucchiere” alle quali si ricorre a volte per guarire da certe malattie o per trovare oggetti perduti e, magari, tesori nascosti, sono le stesse sulle quali fatalmente si riversa la diffidenza del popolino di fronte a situazioni drammatiche che non riesce a controllare e di cui non sa darsi una spiegazione razionale. D’altra parte chi ha dimestichezza con il diavolo o con le oscure forze che presiedono alla salute e alla malattia, alla vita e alla morte, è depositario di un inquietante potere che può decidere della sorte dei singoli e delle comunità. È facile scorgere lo zampino di una “strega” nella morte apparentemente senza motivo di un bambino, nel rovinoso scrosciare della gragnuola, nella moria del bestiame. O spiegare le epidemie di peste come conseguenza dell’uso perverso della magia, come frutto di maleficium. Allora le “fattucchiere”, in un concentrato di invidia e di livore collettivo, diventano degli ovvi capri espiatori: contro di esse si scatena la caccia alle “streghe” e le autorità, civili e religiose, provvedono subito a incarcerarle, a inquisirle, a torturarle, se non altro per evitare sommosse popolari. Generalmente tra laici ed ecclesiastici la collaborazione a questo riguardo è convinta, anche perché i reati di sortilegio competono al Santo Ufficio e al tribunale dell’inquisizione, ma non mancano talvolta attriti e conflitti istituzionali, come accade, ad esempio, con le “streghe” di Spigno. Tra il vescovo di Savona e il feudatario del paese si innesca una sorda contesa, di cui fanno le spese i quattordici disgraziati (ci sono anche dei “masconi”) che, in attesa di una decisione risolutiva, vengono lasciati morire in carcere, non si sa se di peste, di fame o di stenti. È ormai dimostrato, del resto, che le autorità civili, in fatto di stregoneria, erano spesso più drastiche e intransigenti, oltre che meno scrupolose, dei giudici ecclesiastici.
    Una esplosiva miscela di miseria, di superstizione e di violenza è sottesa a queste storie, che svelano, al di là della facciata sussiegosa, del perbenismo ostentato, dell’attenzione esasperata per le forme (e per le formalità), il vero volto del secolo – il Seicento – che è stato giustamente detto “sudicio e sfarzoso”. La violenza, in particolare, appare sempre lì lì per esplodere: bastano un minimo pretesto, un’occasione qualsiasi a scatenarla. A volte è la guerra a portarla, ma più spesso è un’aggressività latente, belluina, uno sfrenarsi inconsulto di istinti e pulsioni: follia allo stato puro o pura furia micidiale. A leggerle – tali storie – si ha l’impressione di un singolare impasto di tragico e di comico: sarà il pathos della distanza, sarà l’effetto spontaneo dell’eccesso e della dismisura, fatto sta che, ai nostri occhi, si connotano di grottesco. L’irrazionalità la fa da padrona e lo stesso consorzio umano assume l’aspetto di un universo da favola, dove “golpi” e “lioni” si aggirano, magari travestiti da agnelli, tra molti animali senza artigli e senza zanne. Ma non per questo innocui o innocenti. Tutti portano le stigmate del peccato. Tutti potrebbero, all’occorrenza, diventare lupi.
    E si spiega allora la predilezione di Concetto Fusillo per queste storie d’archivio mai davvero narrate, mai finora illustrate. Ad affascinarlo è il lato oscuro della vita, quanto vi è di irredimibile nell’umanità, inchiodata, con tormentosa voluttà, al suo destino di violenza e di morte, oppressa e abbrutita dal male: da quello che fa non meno che da quello che subisce. Anche per lui, come per il Macbeth shakesperiano, “la vita non è che un’ombra che cammina; un povero commediante che si pavoneggia e si agita, sulla scena del mondo, per la sua ora, e poi non se ne parla più; una favola raccontata da un idiota, piena di rumore e di furore, che non significa nulla”. Queste storie egli le interpreta in chiave espressionistica, perché ne coglie e ne rileva l’esasperazione, quel misto, appunto, di tragico e di comico che le connota. Così il grottesco diventa, naturalmente, anche la cifra emblematica delle sue acqueforti e delle sue tele. I personaggi vengono da lui evocati sulla carta o sulla tela a recitare, ancora una volta, la loro parte o, meglio, a interpretare il momento saliente del loro dramma esistenziale. Come animati da una sorta di prodigiosa arcivernice, sospinti da una invincibile coazione a ripetere, si presentano sulla scena nelle loro vesti barocche, sorpresi nella loro irruenza o ripresi in pose manierate che lasciano puntualmente trasparire l’urgenza sentimentale da cui sono pervasi. Sempre, comunque, straniti o stravolti, colti, per così dire, in piena flagranza passionale. Con plastica, dantesca evidenza.
    Così, per virtù d’arte, per forza icastica di segno, i gusci vuoti e le scoglie disseccate tornano d’incanto a ravvivarsi: linfa e sangue tornano in essi a fluire. Vicende che si credevano irrimediabilmente perdute e obliate nella polvere secolare degli archivi ripropongono, a volte crudamente e crudelmente, la loro esemplarità di parabole senza tempo. E lo fanno – verrebbe da dire - in maniera impietosa, se non fosse che alla lontananza temporale fa da contrappunto la loro prossimità spaziale. Le storie affondano, infatti, le loro radici nei nostri paesi, in luoghi tuttora ben riconoscibili, addirittura familiari. A ribadirne la credibilità, anzi la verità, non è solo la derivazione documentale e magari la citazione puntuale, sì anche l’ambientazione che, ora a stralci ora a volo d’uccello, rimanda assiduamente al “bel suol d’Aleramo”, ai suoi colli, alle sue torri, ai suoi paesaggi. Sono vicende accadute qui, qui vissute e sofferte, da uomini in carne e ossa come noi. Dietro le loro maschere esagitate, nei loro gesti altezzosi o sprezzanti, nella concitazione che li anima e li tormenta, c’è qualcosa di nostro, di attuale (o di universale), qualcosa che sollecita la nostra pietas. Ognuno di essi sembra interpellarci con le stesse parole che il poeta de Les fleurs du mal rivolge in limine all’hypocrite lecteur: mon semblable, mon frère. In tal modo il Seicento, nelle intenzioni di Fusillo, diventa lo specchio in cui possiamo rifletterci e riconoscerci, tanto che anche lui, come l’antico poeta latino, potrebbe dire, ammiccando, a ognuno di noi: non chiamarti fuori, de te fabula narratur.

    Tratto dal catalogo della mostra "L'Altra Medicina, Magia Superstizione Cronaca sul Suol D'Aleramo" - 2009

    Violenze, imposture, stramberie 

    La vita non è che un’ombra in cammino; un povero attore, che s’agita e si pavoneggia per un’ora
    sul palcoscenico e del quale poi non si sa più nulla.
     È un racconto narrato da un idiota,
    pieno di strepito e di furore, che non significa nulla

    (W. SHAKESPEARE, Macbeth)

     
    Carlo Prosperi

    Carlo Prosperi

    La vena artistica di Concetto Fusillo, nativo di Lentini e per anni trapiantato a Lecco, su quel ramo del lago di Como che Manzoni ha immortalato nel suo romanzo, si è ravvivata a contatto con il paesaggio e la storia dell’Alto Monferrato. Borghi e castella di questo “bel suol d’Aleramo” hanno solleticato la sua fantasia di pittore, che vi ha ritrovato lo sfondo ideale per rappresentarvi la sua convulsa e drammatica visione del mondo e degli uomini, assai spesso travolti da passioni indomabili, vere e proprie marionette manovrate da dèmoni più forti di loro e pertanto misere e miserande come tutte le vittime degne del nome. Solo che Fusillo non si è accontentato di indagare col suo sguardo perspicace il presente, segnato dall’estro della natura e dai residui di un passato remoto che si ostina a non morire: egli ha frugato negli archivi e da carte graffiate e dilavate ha ridestato scampoli di storia quotidiana e di ordinaria follia, che nella sua mente appassionata hanno assunto un carattere di esemplarità. Quelle storie, nella loro specificità, gli sono parse uno specchio emblematico, non solo dello spirito monferrino, bensì dell’anima umana in generale. Quanto più radicate in luoghi riconoscibili, tanto più esse rimandano all’uomo universalmente inteso. Ecce homo, insomma. E l’artista, che attraverso la grafia degli scribi si è sintonizzato, in modo quasi medianico, con i tempi e gli ambienti, stimolato da quegli svolazzi e, forse, anche dall’eloquio in genere impettito come si addice alle cancellerie ma qua e là venato di sàpide inflessioni vernacolari, ha l’impressione di cogliere, dietro le maschere barocche d’occasione, il mondo qual è nella sua essenza: teatralità allo stato puro, pura e drammatica finzione. Non è quindi un caso che, descrivendolo, metta in scena dei burattini dalla gestualità un poco enfatica, sopra le righe, e strambi rictus suggeriti da una passione belluina. Come se l’artista si divertisse a tessere un suo personale elogio della follia. In realtà, non c’è altro divertimento che quello di chi avverte in tal modo combaciare la forma e il contenuto, vale a dire la soddisfazione del lavoro ben fatto. Può anche darsi che su queste opere agisca il ricordo dei “pupi” siciliani, ma, se così fosse, bisogna riconoscere che Fusillo, con una geniale trasposizione, ne ha sovvertito i termini e, adottando scenari monferrini e un’ambientazione cinque-secentesca, anche le strutture. Non è qui rappresentata l’eterna lotta del Bene contro il Male, bensì la (poca) nobiltà e la (incommensurabile) miseria della condizione umana, al di là di ogni differenza di classe e di censo. La vita è una tragicommedia, per certi versi risibile, per altri degna di commiserazione. Essa appare agli occhi dell’artista destituita di senso e si esaurisce quindi in un’assurda pantomima, in un forsennato intrecciarsi di gesti sullo sfondo di paesaggi all’apparenza riconoscibili e magari familiari, che fungono in realtà da quinte prospettiche, da illusori trompe-l’oeil. Profili di torri o di castelli, ondulazioni di colline, alberi e paesaggi, non devono trarre in inganno: essi non adombrano e non assecondano alcun idillio, essendo meri elementi funzionali o strumenti della mise en scène, che possono, tutt’al più, ascondere qualche valore sentimentale. Questo, tuttavia, non ne sminuisce l’importanza estetica, giacché rientrano anch’essi in una concezione del mondo e della vita che potremmo dire “barocca”, se per “barocco” s’intende un misto di artificio e di spontaneità, di sfarzo e di volgarità, di esuberanza vitale e di violenza letale, dove il caso e il caos sembrano sempre sul punto di travolgere l’ordine, questo sì illusorio, non meno del libero arbitrio umano. Gli uomini non sono affatto àrbitri o artefici del proprio destino: come quel personaggio dantesco che continua a mangiare, bere e vestire panni solo perché al posto della sua anima, sprofondata nell’inferno, un diavolo si è insediato nel suo corpo, così qui, sulla scena, si muovono, grotteschi o patetici, dei manichini animati e sospinti da impulsi irrefrenabili, eterodiretti. L’estetica confligge con l’etica: la prima simula un ordine che la seconda nega o smentisce. On fait toujours la même chose, dice il cinese ne La condition humaine di André Malraux. Ebbene, anche nel mondo di Fusillo si nota una coazione a ripetere che i personaggi non sono in grado di governare. Ma, mentre analogo è, in fondo, l’assillo che li sprona ad agire, cioè ad usare la forza o il sotterfugio, infinita è la varietà dei casi e - si potrebbe dire - dei vizi umani. Il male si manifesta nelle forme più diverse e impensabili. E Fusillo, attraverso la sua impeccabile fenomenologia, ce ne offre un campionario davvero notevole. Sempre, tuttavia, i connotati delle persone ne escono stravolti: una smorfia atroce o comunque oscena ne suggella i volti, ne fissa i tratti in una maschera o, meglio, in una serie ricorrente di maschere. Quasi non fossero più uomini, ma - come voleva Machiavelli - “golpi” o “lioni”.  Se non, addirittura, dei (poveri) diavoli, vittime, nonostante la loro prosopopea, di una farsa di cui altri, forse, ha deciso l’esito. E la trama.

    Presentazione della personale "Violenze Imposture e Stramberie" Grognardo (AL) - 2010

    Amore di tempi lontani: suggestioni storico-poetiche di età federiciana nella pittura di Concetto Fusillo 

    Amors de terra lonhdana
    per vos totz lo cors mi dol

    (Jaufré Rudel)

     
    Carlo Prosperi

    Carlo Prosperi

    Ordinariamente la pittura di storia è motivata da intenti o celebrativi o di denuncia sociale: nel primo caso avremo l’esaltazione degli eroi oppure di momenti particolarmente significativi nella vita dei popoli, da proporre - gli uni e gli altri -  come esemplari all’attenzione dei contemporanei e alla memoria dei posteri. L’arte acquista allora un valore eminentemente parenetico e monumentale. Nel secondo caso - pensiamo ad opere come il Trittico della guerra di Otto Dix o la picassiana Guernica - prevale invece l’aspetto documentario, ma con funzioni non tanto, o non soltanto, di asettica testimonianza, quanto di provocazione e di dissacrazione: si vuole, insomma, destare scandalo, suscitare sdegno o - come si diceva una volta - épater les bourgeois. L’opera d’arte tende a farsi allegoria dell’orrore e, quando rinunci alla visione d’insieme per fissarsi enfaticamente sui dettagli, si serve a ragion veduta della sineddoche. In entrambi i casi la retorica è comunque in agguato, magari mascherata da anti-retorica. La propaganda e, in forme più subdole, di “persuasione occulta”, la pubblicità non mancano tuttavia di ammannircene quotidiani (as)saggi.
    C’è poi una maniera più spassionata di rappresentare la storia, privilegiando gli aspetti coreografici, in un’aderenza al vero che, proprio perché tale, mira a collocare gli eventi storici - fatti d’arme, manovre di eserciti - in uno scenario naturale ora di romantica asperità ora di sfumata dolcezza, tanto che ne risultano vedute dall’alto o panoramiche di ampio respiro. Le vicende e gli attori passano allora in secondo piano rispetto al teatro entro cui rispettivamente si svolgono e si muovono. Così avviene, ad esempio, nei disegni acquerellati di Giuseppe Pietro Bagetti. Ma c’è anche chi della storia fa un uso dichiaratamente pretestuoso o di comodo, perché un determinato evento storico gli consente di sviluppare un discorso estetico o, per meglio dire, tecnico-espressivo, di tradurre cioè in pratica certe idee artistiche che pertengono, verbi gratia, al colore o alla prospettiva o ad altro ancora. Ci viene in mente, al riguardo, La battaglia di San Romano di Paolo Uccello. O la pittura dei macchiaioli.
    Anche l’estetismo non di rado attinge alla storia, ma questa risulta sempre mediata dall’arte, dalla letteratura, passata al filtro di una sensibilità (e di una sensualità) non di rado estenuata, talora morbosa, talatra esaltata, con il risultato di ottenere, nei casi migliori, degli splendidi “falsi”, vibranti di “nostalgia dell’antico”, ma di un antico idealizzato, impregnato di spiriti moderni e magari holliwoodiano (si pensi a Edward Burne-Jones o, ancor meglio, a Lawrence Alma-Tadema, per tacere del nostro Giulio Aristide Sartorio). In ogni caso la storia non lascia indifferenti. Non è mai neutra o neutrale. Così, quando uno storico ricostruisce un’epoca o descrive una società o ci dà il ritratto di un personaggio, per quanto “onesto” sia, per quanto sia distaccato, è più facile che ci dica - sia pure indirettamente - qualche verità su di sé, sul suo modo di essere e di vedere il mondo, e di riflesso sulla sua epoca o sulla sua estrazione socio-culturale, che non sull’oggetto della sua ricerca. Il quale resta pur sempre, in tutto o in parte, un “oscuro oggetto del desiderio”. E se questa banale considerazione vale per lo storico, figuriamoci per un artista. Quantunque a volte l’intuizione sia più spedita ed efficace dell’intelligenza nell’arrivare al cuore del reale.
    Diciamo questo per mettere le mani avanti, giacché ci apprestiamo a parlare di Concetto Fusillo, di un amico che è pure un pittore talentuoso e di lungo corso, da sempre affascinato dalla storia, attirato in particolare da certi periodi che, per un verso o per l’altro, sembrano offrire al suo estro creativo un’inesauribile riserva di stimoli e di spunti. Ad animarlo è quel concetto di humanitas così bene espresso da Terenzio nell’Heautontimoroumenos: Homo sum: nihil humani a me alienum puto (“Sono un uomo: niente di ciò che è umano lo considero a me estraneo”). Fusillo è persuaso dell’immutabilità della “natura” umana, di un nocciolo sostanziale che il divenire storico non intacca. Cambiano i costumi, cambia la mentalità, ma l’uomo è, nel suo fondo, quello di sempre, vale a dire - con Kant - “un legno storto”: portato quindi a sbagliare e - quel ch’è peggio - a ricadere negli stessi errori, come se davvero la storia non fosse “magistra di nulla” che lo riguardasse. Ma non è solo questione di pessimismo: l’uomo è pure capace di amare, di gioire, di soffrire e, soprattutto, di manifestare in termini creativi questa sua ricchezza di sfaccettature, di tradurla in arte, di sublimarla. E se invariabile è il nucleo emozionale o sentimentale che lo costituisce, infinite sono tuttavia le forme e le sfumature in cui esso si manifesta culturalmente nella storia. Questo è quanto ammalia e intriga il pittore, proteso a cogliere e assaporare le nuances o, se vogliamo, quello spirito del tempo, quella temperie particolare che, magari illusoriamente, solo per effetto della distanza (ah il pathos della distanza!), è indotto a scorgere o immaginare nella vita e nella cultura di tempi lontani. È una sorta di esotismo dunque a sollecitarlo, orientato però in senso cronologico anziché spaziale.
    Ad ispirarlo sono a volte documenti d’archivio, manoscritti magari graffiati e dilavati, ma anche miniature, opere d’arte, testi poetici, che fungono da feticci o da esche medianiche. Come se da essi si sprigionasse un’energia misteriosa in grado di colmare lo iato temporale tra l’ora e l’allora ovvero di risucchiare l’artista e di trascinarlo in un avventuroso viaggio à rebours. Si è parlato, al riguardo, di “archivio-pittura”, in quanto spesso gli svolazzi grafici, il ductus stesso di una scrittura, le tinte degli inchiostri, i cromatismi preziosi di certi capilettera, nonché macchie e pieghe di fogli bruniti dal tempo e di pergamene sbiadite, nella loro schietta materialità, suggeriscono già sviluppi pittorici o, per essere più precisi, un passaggio dalla grafia alla grafica, l’idea di un collage, l’intonazione di un dipinto. In casi del genere la forma e la struttura materiale dei documenti contano più degli stessi contenuti, i significanti fanno aggio sui significati. E l’archivio si rivela un giacimento potenzialmente inesauribile di sogni e di segni che l’artista potrà perfezionare ad libitum, sia pure contaminandoli con altre suggestioni, derivanti da sedimenti memoriali o dal vissuto personale. Questo per dire che l’approccio di Fusillo alla storia non è filologico, ma se mai fisiologico e, soprattutto, sentimentale. Dall’estetismo lo distinguono un vigile senso dell’ironia, la presenza, comunque, di un’istanza etica, che, anche nell’adesione gioiosa alla vita, nella celebrazione festosa dell’amore e nello stesso trasporto nostalgico, non gl’impedisce di discernere il bene dal male, il reale dal fantastico. Sul piano formale questo atteggiamento si riverbera nell’assenza di ogni calligrafia, nel rifiuto tanto della marmorea levigatezza quanto del glamour più sfrontato, con esiti che, vuoi per l’esasperazione del segno, vuoi per il tratto talora accidentato, si potrebbero dire espressionistici. E in ogni caso il compiacimento per la bellezza delle immagini, la preziosità delle vesti, l’eleganza dell’abbigliamento non è mai fine a se stesso, né si traduce in horror vacui o in schifiltosa selezione dei dettagli. Tanto che, in molti casi, si avverte il gusto del non finito, del frammento, l’accenno o il sottinteso simbolico, il gioco allusivo della citazione; nè manca a volte lo stridore delle dissonanze, anche cromatiche, o la contaminazione degli stili: tutti indizi, insomma, di una cultura marchiata, se pur non a fuoco, dal postmodernismo.
    Per scendere poi allo specifico, bisognerà poi rammentare che i disegni e i dipinti di questa mostra vogliono essere un omaggio a Federico II, alla “scuola siciliana” e ai rapporti, non solo politici, tra il Regno di Sicilia e il marchesato di Monferrato. Sullo sfondo ci sono gli stretti legami tra il terzo “vento di Soave” e gli Aleramici, con riferimenti espliciti a Rambaut de Vaqueiras e alla sua Beatrice, a Bianca Lancia d’Agliano, a Manfredi, a Guglielmo VI. Un minimo di cornice, insomma, che valga a definire, in senso lato, i confini cronologici e geografici del ciclo pittorico qui presentato. Ma la parte del leone, come fonte d’ispirazione, la fanno i poeti della Magna Curia federiciana, tra cui lo stesso imperatore, raffinato uomo di cultura e autentico stupor mundi. Siamo convinti che a catalizzare l’interesse di Fusillo su quest’epoca e, in particolare, sulla figura di Federico II di Svevia sia stata la loro complessità culturale, l’incontro-scontro tra il vecchio e il nuovo, tra l’integralismo cattolico di stampo ancora medievale e l’esigenza tutta moderna di uno Stato laico, e quindi l’urto inevitabile tra dogmatismo e libero pensiero, tra ferreo controllo delle coscienze e tolleranza, tra il peso (e l’ingombro) delle superstizioni e le istanze razionali della scienza nascente. L’afflato ecumenico che, sia pure tra mille contraddizioni, ispira la politica dell’imperatore si traduce in una sorta di sincretismo in cui confluiscono tradizioni culturali diverse, non solo italiane, non solo europee, sì anche orientali, di provenienza ora asiatica ora africana. E la corte del Regno ne è un po’ lo specchio e l’emblema. Si tratta - com’è noto - di una corte itinerante, che nei suoi frequenti spostamenti esibisce una facies spettacolare di cui i cronisti dell’epoca ci forniscono ammirati resoconti. Dietro all’imperatore, vestito per lo più da cacciatore e in sella al suo fiero Dragone, sfilano purosangue saraceni, levrieri, cammelli, elefanti, odalische, eunuchi, ministri, burocrati, notai, soldati, paggi, scrivani, saltimbanchi, schiavi di colore, bestie feroci, avventurieri in cerca di fortuna... L’impressione è quella di una festosa e fastosa baraonda, che nelle pause del viaggio e delle spedizioni militari si concedeva lauti banchetti e signorili riposi, dove c’era spazio per belle donne, giocolieri, musici e romanzaturi. L’atmosfera è quella esemplarmente immortalata nei famosi versi danteschi: “le donne e ’ cavalier, li affanni e li agi / che ne ’nvogliava amore e cortesia” (Purg. XIV, 109-110).
    Ora, il Federico II rievocato dal nostro pittore è senz’altro più vicino al “principe della pace” e al “messia-imperatore” di cui ci parla, nel suo epistolario, il logoteta Pier della Vigna che non all’immagine apocalittica della “bestia che sorge dal mare carica di nomi blasfemi” quale ci ha tramandato Gregorio IX. Nulla qui dell’ostinato avversario dei Comuni, dello spregiudicato accentratore politico, del tenace conservatore che pure - secondo gli studi di David Abulafia - lo svevo sarebbe stato. Ma, in fondo, a Fusillo non importa troppo sapere se la fama di libero pensatore e di sovrano tollerante e, sotto sotto, filomusulmano accreditata da taluni storici (Thomas Curtis van Cleve, ad esempio) all’immutator mundi sia proprio fededegna e meritata. Egli è invece incantato dall’immagine che di lui e della cultura da lui promossa emerge dalle rime dei poeti e dalle raffigurazioni dell’epoca: lì le zone d’ombra, i chiaroscuri, le ambiguità - che pure non mancano e che puntualmente l’artista coglie e rappresenta - fanno parte del gioco, servono ad arricchire il quadro, quasi che l’equilibrio dell’insieme fosse appunto garantito dalla spinta di forze contrapposte, dalla coesistenza dei chiaroscuri. Il risultato armonico basta a persuaderlo del valore sostanzialmente positivo e pertanto accattivante di quel mondo. La tematica amorosa della “scuola siciliana” è presa sul serio dal pittore, che vi ritrova una voglia di vivere e una varietà-verità di sentimenti e di atteggiamenti tali da contagiarlo, da coinvolgerlo emotivamente. Di qui i colori luminosi dei quadri, la gioia dei gialli, la freschezza dei verdi, la veemenza passionale dei rossi, la placidità degli azzurri. E poi paesaggi ariosi, scacchiere di prati, colline arborate, specchi di mare, chiese, torri e castelli: tutto come se germinasse dal cuore (o dalla parola) ardente del poeta per farsi metafora ora fulgida ora dolorosa del suo desiderio, specchio vibrante della sua interiorità. L’ardore amoroso diventa letteralmente fuoco, si traduce in canto e danza, oppure si concretizza nell’immagine del cuore, in un sogno un po’ scettico di paradiso. La poesia e la realtà che essa evoca hanno la donna amata come fulcro. Al centro del quadro c’è lei, bionda e bella, non di rado sfuggente e altezzosa: il resto è contorno, cornice, propaggine e propagazione del sentimento, se non addirittura emanazione di lei, ridondanza della sua essenza ineffabile.
    Non mancano - dicevamo - le ombre, ma esse in fondo rendono più credibile il quadro. Così le malelingue, i “malparlieri”, insidiano la felicità degli innamorati. Latet anguis in herba, sembra dirci Fusillo, sulla scorta dei testi poetici. E disegna, appunto, serpenti infidi o inventa, con estro quasi surreale, l’albero dei maldicenti: una genìa di cui non si perde il seme. Altrove, invece, riprende il tema della crociata e della spedizione d’oltremare, “in terra di Soria”, quasi contaminando Rinaldo d’Aquino con Jaufré Rudel, per evocare non solo amori di terre lontane, diafane come miraggi, ma anche rotte perigliose, dagli esiti insondabili. O riverbera la doglia inconsolabile di Giacomino Pugliese, che piange la morte della donna amata, in un paesaggio senz’anima, d’un algido azzurro oltremarino. Fusillo sta al gioco, senza troppo interrogarsi sulla sua convenzionalità, senza chiedersi quanto i temi siano stereotipati e quanto il genere, chiaramente d’importazione, sia genuino: quello che conta per lui è che il gioco sia seriamente interpretato e la sostanza umana che gli schemi lasciano filtrare sia tuttora godibile, al di là della distanza temporale e spaziale. Ad attualizzare, per quanto possibile, la materia provvede lui, che, siciliano di Lentini - come Gorgia, come il Notaro - ma monferrino di adozione, vi innesta tanto della sua sostanza autobiografica e la permea della propria sensibilità, del suo gusto per gli incunaboli, del suo amore per i manoscritti dell’epoca, del suo entusiamo per “quell’arte / ch’alluminar chiamata è in Parisi”. I ricordi dell’isola natìa - quel mare, quel cielo - convivono qui con immagini desunte dal “suol d’Aleramo” - quei colli, quelle torri - e con esse si fondono e si confondono, inestricabilmente. Dei testi poetici che egli interpreta spesso inserisce o cita nei dipinti brandelli di versi, magari incipit memorabili, la cui trascrizione funge per così dire da diapason e dà il la all’invenzione figurativa, come se il colore o l’immagine fosse la naturale prosecuzione o un’alchemica trasmutazione della parola.  
    Alla fine viene da domandarsi se la storia dell’età federiciana trovi qui, se non una trascrizione puntuale, almeno una rappresentazione attendibile. Ma tale domanda non è pertinente, perché, per dirla con Platone, Fusillo non si limita a riprodurre delle copie, ma, per via simpatetica, in una sorta di corto circuito creativo, cerca di darci la sua idea della storia: di quella storia e di quel mondo tenta, insomma, di cogliere lo spirito. E se qualcuno obietterà che, ancora una volta, ci troviamo dinanzi ad una interpretazione, noi gli ribatteremo - con Nietzsche - che “non esistono fatti, ma solo interpretazioni”.

    Tratto dal catalogo della mostra "Federico II, la scuola poetica siciliana e il Monferrato" 2012

    Concetto Fusillo: metafore e metamorfosi pittoriche dell’ Alcyone dannunziano 

     

    Ma non è quanto vediamo nelle opere di Concetto Fusillo che si ispirano all’Alcyone dannunziano. L’autore è grande, l’opera è certamente un capolavoro, ragion per cui l’impresa del pittore siciliano può sembrare temeraria, tale da far tremare le vene e i polsi. E tale in effetti sarebbe se l’artista avesse preteso di misurarsi col Vate pescarese sul suo stesso terreno, ribadendone la poetica, le idee, gli intenti. Egli invece si limita a prendere dall’Alcyone alcuni spunti, sollecitazioni e stimoli da innestare su ben altra sensibilità, da sviluppare in tutt’altra direzione. Capita così che alla Versilia dannunziana si sovrappongano o si sostituiscano paesaggi monferrini o siciliani: ricordi d’infanzia, suggestioni autobiografiche, altri luoghi dell’anima…

    Come sappiamo, Fusillo ama partire dai manoscritti, dalle grafie, quasi trovasse in essi indizi, residui o tracce dell’anima stessa degli scrittori e degli scrivani. O, se non altro, l’impronta di un’epoca, la chiave, insomma, per penetrare nella loro psicologia, per divinarne la personalità. La scrittura, nel suo stesso articolarsi, anche a prescindere dai contenuti, esercita su di lui una suggestione di tipo simpatetico. La grafia suggerisce la grafica e la grafica, a sua volta, si fa pittura o la compenetra. Come avviene a volte nell’arte islamica. L’approccio grafologico ai testi non è secondario nemmeno qui, sebbene dell’Alcyone a intrigare – e ad affascinare – Fusillo sia soprattutto l’aspetto mitico-metamorfico. Ma, a ben pensarci, già lo sviluppo in senso grafico-pittorico della scrittura, che, a cominciare dalla sua elementare materialità, diventa altro da sé, vale a dire linea, ghirigoro, svolazzo, colore e, una volta letta e pronunciata, puro suono, musica e finanche “sensualità rapita fuor de’ sensi”, non adombra forse una sorprendente, miracolosa parvenza di metamorfosi? Non evoca forse recondite analogie, al pari della metafora che getta ponti tra realtà diverse, apparentemente lontane? Orbene, anche il colore nella pittura di Fusillo acquista valenze metaforiche. L’Estate, che dell’Alcyone è protagonista, s’incarna nell’azzurro del mare e del cielo, si screzia festosa nei verdi cangianti della vegetazione mediterranea, s’accende di luce, s’infiamma di sole e di sabbie, s’estenua nel languore settembrino. E l’uomo si annulla nella natura, fino a sentirsi davvero una docile fibra dell’universo…

    E l’umano si degrada irreparabilmente nel ferino, nel grottesco, nell’insensato. La violenza occulta della natura è peraltro la stessa della storia, che non può essere bandita dalla rappresentazione, ma affiora qua e là, magari nella comparsa inopinata – e apparentemente anacronistica – dei soldati tedeschi, che da soli, con la loro mera e minacciosa presenza, valgono a negare, ad annullare ogni possibilità di idillio, di abbandono sentimentale…

    Ritornare alla normalità significa ripiombare nella prosa quotidiana e un sapore di cenere subentra all’avvampare delle passioni, agli aneliti di gloria, ai desideri sublimi. Tutto s’immeschinisce: anche il dolore, anche la violenza. Ed accanto a noi non avremo più il fanciullo che col suo flauto incanta le lucertola, né la naiade che dal tronco di pino ci tenta con la sua nativa sensualità. Dei e centauri hanno abbandonato la terra dove avevano suscitato miraggi, acceso bagliori, evocato prodigi. Anche crudeli. Come la “favola bella” che, in virtù della potenza magica delle parole e dei colori, ha tuttavia saputo redimere la vita, riscattandola dalla sua insignificanza, traducendone in sontuosi miti e in squisite metafore la sostanza aleatoria, la natura metamorfica. Restituendocela sub specie æternitatis…

  • Clizia Orlando

    Critico d'Arte

    “La poetica del mito tra parola e immagine” 

     
    Clizia Orlando

    Clizia Orlando

    La naturale disposizione al disegno si propone quale principale referente dell’arte di Concetto Fusillo.  Fin dall’inizio il suo impegno di pittore è stato affiancato da una continua e copiosa attività grafica, segnata dalla qualitativa abilità tecnica di tradurre nella dialettica della linea e del segno incisorio la sua sensibilità espressiva. Un’ attitudine accompagnata da una specifica attrazione per l’ambiente della storia e delle lettere, riferimenti costanti nel suo operare artistico, fonti d’ispirazione e meditazione, citazioni colte e stralci di reperti che, nella carta ingiallita di antichi faldoni, hanno conservato memoria di aneddoti con protagonisti  sospesi tra realtà e leggenda. Le sue raccolte di arte incisoria non si possono immaginare lontane da riferimenti narrativi, da  documenti percorsi da una calligrafia traboccante di virtuosismi espressivi, che divengono spunti d’ispirazione, preziosi presupposti per un immaginario figurativo tradotto in uno stile rigoroso e personale, conforme all’originalità del temperamento dell’autore. La sua continua ricerca fonda le proprie radici nella  meticolosa ed appassionata indagine sull’opera di un autore o si inoltra nei meandri di schedari d’ archivio, da questi studi nascono  le sue visioni. E’ la trasposizione grafica tramite il suo sentire della grande storia e della piccola storia, è il riuscire a mediare la condivisione di palpiti di meditazione di ingegni straordinari o l’assaporare brandelli di un vissuto che nel suo lavoro si caricano di straordinarie sfumature pittoresche.  Un ricco substrato  umanistico anima dunque la produzione di Fusillo, che si esprime utilizzando l’imprinting di un appunto rapido, sciolto, nervoso, guizzante nel segno, che non si abbandona mai alla casualità del gesto né tanto meno si affida alle possibili felici riuscite date dagli azzardi della morsura. Sui fogli si affermano i soggetti generati da tale procedere cognitivo in un rincorrersi di acquaforte, acquatinta, inchiostro, acquarello. <Ogni lastra è stampata su carta fatta a mano con inchiostri calcografici – Michele Tavola -  di differenti colori, scelti in consonanza con il tono e lo spirito delle vicende narrate>. <Qualche volta – commenta Tavola – si conserva memoria delle parole che Fusillo copia dai documenti e fonde con le sue figure, creando un effetto di notevole impatto visivo, definito da Gino Bogliolo, con uno straordinario neologismo “archiviopittura”>. 
    Nella connotazione stilistica  del suo operato si propone un sunto tra segno e sintesi affabulatoria percorsa da una sorta di vibrazione poetica che rende viva la citazione senza cadere nell’affettazione:  Fusillo affida alla linea  la funzione di definire da sola la forma con assoluta purezza o di rendere, con grande aderenza alla spontaneità del gesto,  l’intrecciarsi e il rincorrersi delle trame narrate.
    Sfogliando le cartelle di grafica si corre sulla linea del tempo, dalle secentesche cronache relative alla medicina alternativa del Monferrato acquese  alle pittoresche trasposizioni di documenti di atti criminali, registrati sul territorio piemontese tra il 1500 e il 1800, dalle medievali evocazioni di postriboli infernali alla simbologia arcaica e primitiva contenuta nelle pagine di Pavese. E proprio all’opera dello scrittore di Santo Stefano Belbo è dedicato il suo ultimo impegno di ricerca, che si concretizza in una serie di tavole a china e pastello su cui si stemperano le immagini tratte dalla feconda produzione pavesiana. Il risultato di questo approfondimento si traduce in una mostra ospitata nell’avvolgente e coinvolgente dimora natale di Pavese. L’allestimento sollecita emozioni nella sequenza dei rimandi letterari. Nella raccolta di fogli  il tratto si presenta a volte più incisivo nell’andare a definire  la quasi caricaturale caratterizzazione fisionomica dei personaggi che abitano lo spazio; quei volti che si impongono assumono valore emblematico nell’equilibro compositivo, riportandoci alla memoria le partecipate atmosfere proprie dell’arte degli espressionisti tedeschi. E’ il caso di  “Davanti alla casa del Fascio”, qui il pittore riesce a rendere con efficace puntualità l’analisi di stampo autobiografico che Pavese affida al romanzo “La casa in colina”, dove forte s’impone la riflessione morale, etica, esistenziale sul senso della guerra.
    In alcune  carte compaiono architetture, che si stagliano in modo imperativo dominando la scena o che si contraggono per fare da quinte a vocazioni visionarie,  quali  “Un paese ci vuole”, inchiostro e pastello, in cui in riferimento a “La luna e i falò” si respira la poetica pavesiana nell’evanescente, quasi impalpabile identità dei soggetti, che con grande attinenza al messaggio, sembrano interpretare quella tensione di dolorosa e vana ricerca dell’identità, in cui la memoria dell’infanzia e dei miti del passato arcaico rivelano solo un angoscioso scarto dalla realtà del presente. A tali dinamiche narrative si affiancano altre dinamiche arcane e ironiche, come  “Il diavolo sulle colline”, in cui la traslazione grafica si fa veicolo di <una libera lettura ideologica di Poli (diavolo) - commenta l'artista- in esso affonda il desiderio dei giovani verso una società diversa che sembra aver bisogno della droga, dell’euforia e dell’abbandono della realtà>.   Fusillo adagia la sua libertà inventiva  sul foglio e con  questa  traduce emozioni, fantasie, sogni come quelli leggeri che stillano dalla china di “Per la vuota finestra” dove “ Il bambino guardava la notte sui colli freschi e neri ” o con più concitata veemenza costruisce passaggi rivolti a testimonianze di un vissuto partecipato e drammatico, quale quello che fa da protagonista a “Il tuo passo leggero” tratto dalla lirica “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. 
    Sono profili  che abbandonano la consistenza corporea per fluttuare, galleggiare sulle bianche superfici,  come in “Sei una nube intravista tra i rami”, sono figure e paesaggi che si assommano in modo concitato nel nostro immaginario in “Dove han bruciato non c’è più speranza” per placarsi poi nella lirica di altri fogli quale quello in cui l' ascetica alchimia chiaroscurale  tratteggia lo sfondo di “Voce di uno che grida nel deserto”, frase ripresa da una lettera di Pavese dal confino. 
    L’artista nel suo partecipato indirizzo di ricerca di volta in volta inventa il segno e definisce l'impianto, in accordo intimo con il significato lirico dell’immagine, che può essere a tratti scabro e rude nella forte e drammatica impostazione di alcuni passi per declinare poi in modo più rarefatto nel connotare spazi  di più ampio respiro, silenziosamente percorsi da sussulti di memoria. Possiamo dunque affermare che Concetto Fusillo realizza un progetto grafico che si fa veicolo del messaggio rivendicato da Pavese nella poetica del mito, ideale inteso come “parola comune” esperienza verbale e conoscitiva condivisa da un popolo, quanto la ricerca di un linguaggio o di uno stile che deve essere funzionale al valore morale della comunicazione.

    Testo per la mostra personale "Incontro con Cesare Pavese" Centro Pavesiano Casa Natale Cesare Pavese - Santo Stefano Belbo - 2009

  • Egle Migliardi

    Poeta

     

     
    Egle Migliardi

    Egle Migliardi

    "Il bene e il male non si possono dividere a metà con una spada" scrisse Manzoni, consapevole del confine sottile che ci fa spargere i semi delle nostre azioni al di qua o al di là del limite consentito.

    Nel nobilissimo palazzo Vescovile si è conclusa domenica 13 luglio la splendida mostra di Concetto Fusillo intitolata "Peregrinazioni tra Bene e Male nel XVI e XVII secolo".

    Visitata da centinaia di persone, ha convogliato i passi verso il cuore spirituale di Acqui, ascendendo al Duomo e all'Arte, necessaria come il sale sul pane. Numerosi gli articoli sui giornali, con riprese televisive.

    L'autore la considera una delle sue mostre più belle, frutto di appassionate ricerche nell'Archivio Vescovile di Acqui e nell'archivio Storico di Alessandria, in collaborazione con Paola Piana Toniolo e Carlo Prosperi. Sono state esposte copie digitali dei documenti del 1500 e del 1600, essi stessi fonte di ispirazione per la loro patina antica color avorio, per i ghirigori talora oscuri di secolari scritture.

    "La carta canta" sì, per narrarci vicende storiche, ma sussurra anche nomi di persone dimenticate e di storie che fanno riflettere.

    Cominciamo dal Bene: maggio 1530 il parroco di Rivalta don Paolo Cunietti, costruì la chiesa. Fusillo ce lo mostra mentre grida al cielo la sua vittoria.

    Quest'opera

    "Rector et Fabricator" è simbolicamente il primo dipinto del catalogo, per sottolineare il ruolo attivo della Chiesa nell'edificare cattedrali e coscienze.

    Autunno 1631: ad Acqui il vescovo Pedroca aprì l'episcopio agli appestati.

    E lui stesso morì per il contagio.

    Ci furono preti pittori (a Ponzone e a Montaldo) e poeti: nel libro dei battesimi di Rivalta don Antonio Aburrati ha parole di lode per il medico che aiuta le partorienti.

    "S'allietano del pari i prigionieri / quando spontaneamente si spalanca /per sempre l'uscio della gattabuia."

    La libertà dell'anima non ha prezzo.

    E i peccati? Penso che gran parte siano ascrivibili all'orgoglio e all'arroganza.

    Il tratto grafico di Fusillo è nervoso, scattante, espressionista: certi suoi volti hanno la brutale opacità di Bruegel.

    Esile il tratto di inchiostro che allaccia le persone e le vite. Intensi i colori: nero e azzurro, accensioni di giallo e di carminio. Scritte e numeri inseriti fanno percorrere all'occhio intricati labirinti.

    Si avverte una vitalità impetuosa intrecciata a gorghi oscuri.

    L'artista unisce capacità di sintesi e fantasia creativa, vibrante fiamma scarlatta.

    Spicca la matericità di tronchi di vite "abitati" da visi stravolti: canto XIII dell'Inferno, coloro che videro disintegrarsi la loro esistenza, e compirono il gesto estremo.

    Trasfigurare il male nell'Arte è ricerca di luce.

    "Perché io che nella notte abito solo, anch'io / di notte, strusciando un cerino sul muro, / accendo cauto una candela bianca nella mia mente." (Giorgio Caproni)

  • Enrica Cerrato

    Giornalista

    Archivio di Stato. Quindici storie "Noir"
    Leggi l'articolo
  • Gigi Gallareto

    Critico d'Arte

    La metafora dell’uroburo 

     
    Gigli Gallareto

    Gigli Gallareto

    Veddi Catherina quante Masche tormentano questa creatura?” sentenzia la strega-levatrice di Morbello Maria Fallabrino ad una povera madre in angoscia per l’imminente morte del suo neonato.

    A distanza di cinque secoli da quegli eventi e di oltre due dalla rivoluzione culturale dell’Illuminismo, forti della nostra cultura e delle convinzioni che ci derivano dai progressi della scienza e della medicina noi sappiamo che tutte queste Masche erano frutto della superstizione, dell’ignoranza, della credulità popolare. Eppure anche a noi pare di scorgerle orribili e ripugnanti nell’aspetto e nelle intenzioni mentre si affannano per rapire l’anima del bambino. Anche noi siamo coinvolti dalla drastica convinzione di quel “veddi” che taglia le gambe ad ogni dubbio, ad ogni differente ipotesi. Non sarà stata una malattia a tormentare quel povero infante? Ma no, eccole lì le Masche – veddi Catherina – e se si vedono, allora non c’è altro da fare che credere. Si vedono, ci sono davvero. Sono la realtà.

    Una realtà stralunata e distorta, tragicomica nella sua assurdità tanto più che scaturisce pari pari dall’autorevolezza del documento d’archivio, riportato così com’è, neppure mediato dalla riflessione storica. Una dato incontrovertibile, con tanto di sigillo di autenticità. “Veddi Catherina” e quelle masche noi le vediamo davvero, non ne abbiamo la vaga percezione del racconto, della favola, della leggenda, della veglia invernale, del teatro. Le vediamo attraverso la storicità del documento, nudo e crudo.

    Questa ambigua ingannevolezza della storia deve aver affascinato Concetto Fusillo quando alcuni anni or sono ha iniziato l’avventura di tradurre i documenti custoditi e dimenticati negli archivi di paesi e parrocchie in espressioni pittoriche di grande efficacia e suggestione. Prima la splendida mostra “Guidoni, grassatori e tagliagole”, spaccato di storie cruente che insanguinarono le campagne astigiane nel Seicento, poi questa ancor più affascinante “L’altra medicina, magia superstizione e cronaca” dove una ventina di storie dedotte dagli archivi dei paesi del Suol d’Aleramo grazie alla passione di alcuni validi ricercatori sono diventate espediente per una carrellata pittorica a due facce – acqueforti e oli – di assoluto vigore comunicativo e di notevole impatto visivo. Per usare un felice neologismo coniato da Gino Bogliolo possiamo davvero parlare di “archiviopittura”.

    Fusillo prende spunto da fatti locali, fa viaggiare sul territorio la sua mostra che di territorio è veramente impregnata, le fa toccare paesi e borgate, piccole e piccolissime realtà che raramente hanno occasione di confrontarsi con esperienze artistiche di questo livello. Come in un pellegrinaggio di ringraziamento verso la realtà ispiratrice della creazione artistica.

    Occasione importante dunque per promuovere e far crescere il Suol d’Aleramo, per alternare alla lunga serie di sagre estive un po’ di doveroso nutrimento dello spirito. Ma questo aspetto - pur importante - è in definitiva un valore aggiunto della mostra, che dobbiamo stare attenti a non trasformare in mero strumento di valorizzazione territoriale.

    Sarebbe un grave errore ridurre tutto alla cronaca locale, alla rievocazione rusticana, all’antropologia spicciola, al folklore d’archivio. In realtà ci troviamo di fronte a una operazione artistica di alto livello, ben svincolata dalle sue basi geografiche, pur importanti, il cui nucleo centrale sta nel valore della parola che si fa segno, come alle origini della scrittura, quando pittogramma e ideogramma convivevano nella stessa espressione visiva e arricchivano di significati l’espressione dei concetti e dei fatti.

    Più che reinterpretazione di documenti d’archivio l’opera di Fusillo è il tentativo di costruire un nuovo archivio visivo con segni grafici e pittorici sapientemente mescolati, dove anche la trascrizione di una frase o di un brano, con la grafia originaria, assume un valore sia di significato sia di decorazione pittorica, come le iscrizioni dei versetti che arabescano le pareti delle moschee.

    Ma, si potrebbe obiettare, questa è elaborazione personale, mentre l’archivio ci scodella il fatto puro e semplice così come esso è avvenuto. Eppure a ben vedere anche il documento non è la realtà; per quanto fedele, esso è il riverbero di uno specchio dove il fatto resta mediato e interpretato dal pensiero, dalla personalità, dalla cultura di chi ha redatto il documento e dall’ambiente in cui tale persona ha operato. Memoria storica, senza dubbio, ma fino a un certo punto. Non dissimilmente da come può definirsi memoria storica - ma fino a un certo punto - la creazione di Fusillo.

    Egli narra (cioè dipinge) delle storie di varia umanità - la zuffa tra popolani, la strega di paese, la caccia al tesoro, i traffici dei preti, la guaritrice, la peste, il podestà vilipeso, il pero conteso, il maialino ammazzato ecc. - apparentemente isolate tra loro, come frammenti di un libro che riemergano dalle nebbie del tempo. Storie che solo la limitatezza della nostra mente ci costringe a leggere come pagine da voltare ad una ad una, illudendoci con questo che esse non siano legate in un volume indissolubile.

    L’affresco grandioso che ne deriva altro non raffigura se non un carnevale beffardo del mondo, un carrozzone che va avanti da sé dove la realtà diventa quella mistificazione operata dalla credulità popolare, dalla superstizione, dalla religione travisata, dalla magia, dalle paure.

    Proprio le paure diventano allora il filo conduttore del lavoro. Le paure del diverso, della miseria, della violenza famigliare, della disperazione. La paura della morte, convitato di pietra in tutte queste scene vivacissime e vitalistiche, fatte di folle e di singoli che sono spinti nonostante tutto da un incalzante anelito di vita, da una tensione continua verso l’azione, verso la sopravvivenza. Come in quelle affollatissime scene degli affreschi medioevali, come nella dinamicissima umanità delle novelle del Boccaccio.

    In questo mondo che millanta regole basate su presupposti falsi all’artista non basta registrare, come avrebbe dovuto fare – e non sempre si è limitato a fare – il buon burocrate redattore delle carte d’archivio. L’artista – che è essenzialmente un paesaggista – guarda il documento appunto come un paesaggio e interpretandolo lo vede dall’alto e vedendolo dall’alto se ne sente partecipe ma anche superiore, in qualche modo lasciando trasparire un giudizio dietro la maschera apparentemente imperscrutabile del trascrittore di storie.

    Tutto torna, sembra voler dirci Fusillo con la metafora simbolica dell’uroboro, il mitico serpente che si morde la coda sintetizzando la storia ed il tempo in un cerchio perfetto. Che siano cambiati i modi e le forme ma in fondo la sostanza resti sempre la medesima?

    Forse che oggi, velati sotto forme più ammiccanti o propagandati con mezzi pubblicitari più efficaci, non resistono quei pregiudizi, quelle paure, quegli errori?

    Veddi Catherina quante Masche…” ora le vediamo anche noi, nelle acqueforti e negli oli di Concetto Fusillo e anche nel mondo che ci circonda.

  • Gino Bogliolo

    Storico

    Guidoni Grassatori e Tagliagole nelle campagne astigiane (cartella di acqueforti) 

     
    Gino Bogliolo

    Gino Bogliolo

    Mi tocca oggi una sorte che ricorda quella occorsa al maestro Iacopo del Molière, costretto a presentarsi ora con la giacchetta di cuoco, ora con il camiciotto del cocchiero. Gli è che, dismesso al tramonto l’orbace e liso camice dell’archivista, sono chiamato all’alba a giudicare di acquetinte e puntesecche dell’amico Concetto Fusillo e ora, su questo foglio bianco che è per me un autentico spaventacchio, a officiare lo sponsale dell’umbratile “tabularium” con la sua libera interpretazione artistica. Non essendovi regole prescritte intorno alla scelta dei documenti e dei fatti da presentarvi, ho inclinato verso le voluminose effemeridi di atti processuali che riposano nei nostri archivi storici, attingendo da quel “serioso poema”, per dirla con Vico, che sono le fonti dell’antico diritto. “Gente di confini, o ladri o assassini” – sentenzia lo Pseudo Aristotele - e per l’appunto l’astigiano fu storicamente limes e crocevia di genti diverse fin da quando lo Pseudo Aristotele sentenziava. Raccolte e selezionate le copiose  fonti, l’artefice mi è parso poi propenso ad avvallare l’indulto per i dieci “criminali” che troverete qui ritratti -ma, quasi per antinomia, liberati- dalle incisioni di questa cartella. Il risultato complessivo ha lo spirito del poema epico e i documenti appaiono “narrati” così come un ispirato aedo, un rapsodo o un claustrale avrebbe potuto cantarli, “facta atque infecta”, poeticamente. La verità, in
    arte, è ciò il cui contrario può essere ugualmente vero, e così che è come cieco
    chi vuole distinguere il veridico dall’invenzione in Omero -“primo pittore
    delle memorie antiche”-, così io voglio accompagnare l’invito alla
    lettura dei temi storico-artistici con  l’avvertenza che,
    il genio dell’Ariosto, tanto graziosamente pose:
      “Ma se tu vuoi che ‘l ver non ti sia ascoso,
    tutto al contrario la Storia converti,
    che i greci vinti e che Troia vittrice,
    e che Penelopea fu meretrice.”

    Tratto dalla cartella di acqueforti "Guidoni Grassatori e Tagliagole nelle campagne astigiane" 2006

  • Giovanna Romanelli

    Presidente Premio Letterario Cesare Pavese

    Incontro con… Pavese. Cartella di incisioni di Concetto Fusillo
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    INCONTRO CON CESARE PAVESE 

     
    Giovanna Romanelli

    Giovanna Romanelli

    Concetto Fusillo, nato a Lentini, un luogo significativo per la cultura letteraria italiana delle origini, trasferitosi fin da adolescente in Lombardia, vive ora a Mombaldone, dove si trova anche il suo laboratorio artistico, nel quale generalmente esegue tutte le sue creazioni, molte delle quali sono state esposte nel corso di una lunga carriera - oltre quarant’anni - nelle maggiori città italiane.
    Agli appassionati dell'arte dell'incisione sono note le opere di Concetto Fusillo, che nel suo curriculum vanta una serie di riconoscimenti e apprezzamenti nazionali e internazionali non solo per capacità creativa, ma anche per la cifra personalissima che contraddistingue le sue opere e le caratterizza in modo inconfondibile. Si pensi, a titolo esemplificativo, alla serie di acqueforti realizzate per la mostra documentale intitolata «Guidoni grassatori e tagliagole nella campagna astigiana»,  presso l'Archivio di Stato di Asti, dal 19 gennaio al 9 febbraio 2007. L'artista, che fin dalla sua prima attività ha rivelato interesse per la storia della mentalità e per la ricerca, ha illustrato una serie di documenti storici relativi a delitti penali ritrovati negli archivi dei diversi comuni astigiani. L'incontro tra due diversi linguaggi, quello storico-documentale e quello pittorico, grazie anche all'essenzialità del segno grafico, ha prodotto frutti significativi chiarendo e illuminando zone oscure o poco note di una microstoria locale essenziale per la comprensione della complessità culturale del territorio in cui sono sedimentati valori e identità. E l'ha rivestita d' "aura".
    Nel corso dell'anno appena trascorso l'attenzione dell'artista si è appuntata verso l'opera di Cesare Pavese, forse sospinto anche dalla ricorrenza del centenario della nascita dello scrittore, celebrato e ricordato ovunque, ma con particolare interesse e partecipazione, nella sua casa natale, a Santo Stefano Belbo, grazie all'infaticabile opera del professor Luigi Gatti, presidente del CE.PA.M,  che ha saputo per l'occasione richiamare in tale luogo carico di memoria studiosi e familiari del grande scrittore.
    Dunque, dal rinnovato interesse per Pavese nascono queste nuove acqueforti arricchite dall’acquatinta e dalla punta secca , cinque incisioni che si ispirano a diverse opere dello scrittore langarolo, e ne interpretano stralci o passaggi particolarmente significativi all'occhio dell'artista. Ancora una volta siamo in presenza di una convergenza di linguaggi diversi, capace di aprire al lettore nuovi orizzonti di comprensione e di interpretazione, grazie al punto di vista particolare prescelto dall'artista che con il suo segno grafico, quasi il bisturi di cui parlava Zola, incide le parole dell'Autore, le isola e le amplifica con ieratica espressività, quasi a volerne di-svelare la più intima verità. La stessa tecnica dell'acquaforte ben si presta alla poetica di Pavese, che scava nella terra e ha in essa il suo fondamento.
    È questa l'impressione che il lettore riceve accostandosi alla prima acquaforte pavesiana, che prende il titolo dalla lirica di apertura di «Lavorare stanca», I mari del Sud. Qui Fusillo affolla su un fondale blu, simbolicamente l'ampio mare della memoria, una serie di figure bianche, afferenti alla dimensione onirica, tra cui campeggia l'immagine del cugino, dipinto appunto come «un gigante vestito di bianco», restituendoci la sua dimensione mitica. La mano dell' artista, catturata dal pensiero magico, alla sommità di una piramide ideale, disegna la collina, testimone del dialogo tra la voce narrante e il cugino, e traccia mostri marini e mondi allusivamente esotici, che rinviano al vagheggiamento dell'altrove, del sogno, dell'indefinito, dell'incognito. Del resto l'azzurro è il colore dell'utopia, sempre vagheggiata e sempre irraggiungibile.
    La Lettera a Pinolo del 9 gennaio 1950 è l'altro documento che ha ispirato la fantasia creatrice dell'artista. Si tratta di una breve missiva inviata da Cesare Pavese all'amico Pinolo Scaglione («Nuto, il falegname del Salto»), con la quale gli comunica di essere lontano da Torino e di avergli inviato in dono per le feste «un panettoncino», che invita a gustare dicendo: «Prendete e mangiate...», quasi fosse un dono di sé e un gesto di comune appartenenza.
    Fusillo interpreta questo messaggio utilizzando un fondale rosso con figure bianche; esso è diviso idealmente in due parti complementari, una superiore dove campeggia  il panettone, su uno sfondo di città, una inferiore in cui è descritta con linguaggio espressionista una scena che ricorda l'ultima cena, ove accanto alla figura di Gesù è individuabile quella di Giuda. Anche qui una scritta: «sono forse io signore!».
    Questo mondo diviso in due emisferi, una sorta di oltremondo dantesco, trova nella cifra del colore rosso il segno del sacrificio, del sangue innocente versato nel mondo, come si evince dalla citazione «sono forse io signore», domanda rivolta da Pietro a Gesù, quando afferma che qualcuno lo tradirà. E da qui si origina una riflessione tutta contemporanea sul sacro e sul tragico che ci troviamo a vivere come già Pavese.
    Anche l'altro testo scelto da Concetto Fusillo è di grande valore e significato simbolico: si tratta infatti dell'incipit de La luna e i falò, l'ultimo romanzo di Pavese, in cui Anguilla, il trovatello che ha cercato fortuna in America, a quarant'anni ritorna al proprio paese in cerca di identità. Il protagonista infatti non sa dove sia nato, quali siano le sue origini, perciò il suo viaggio a ritroso diviene anche uno strumento di ricerca morale e filosofica.
    L'artista interpreta il mondo di Anguilla come un luogo indistinto e caotico, in cui spiccano però alcuni elementi sicuri e certi: la collina con le sue case note e gli alberi, un paese dal quale cominciare la propria ricerca: «Un paese ci vuole, ... [...]. Un paese vuol dire non esser soli». Qui il colore dominante è quello verde scuro, quello della campagna e dei suoi frutti, come la mela che in questa acquaforte svolge un ruolo di spicco, non solo in ossequio al romanzo, ove espressamente sono menzionate le mele tra i frutti prediletti, ma anche a ricordare il peccato originale dal quale nacquero il male, la fatica, il dolore. In una dimensione più personale e privata, Anguilla, tornato al paese ove è cresciuto, «cerca di mettere radici, di farsi terra e paese, perché la sua carne valga e duri qualcosa di più che un comune giro di stagione». Ed è proprio quest'ultima frase che Fusillo sceglie di incidere sotto il frutto della mela, con qualche lieve variante rispetto all'originale, perché il linguaggio dei segni e quello delle parole rafforzano il senso del testo pittorico e lo completano.
    Il soggetto della quarta acquaforte è ispirato dalla celebre lirica Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. L'artista utilizza qui uno sfondo color seppia, che ben si adatta a tradurre il tema dominante della morte e del dissolvimento. Nella parte destra dell'incisione, in alto, è collocato uno specchio, in cui sono incisi gli ultimi sette versi della lirica, che sviluppano il tema dello «sguardo» della morte, che ha gli occhi della donna amata e che, come uno specchio, riflette l'immagine di un «viso morto». A ridosso dello specchio, a sinistra, si trova uno scheletro femminile; specularmente, a destra, in basso, appare un volto dagli occhi vuoti, quasi a dar rilievo all'ultimo verso della poesia, che sintetizza il senso complessivo del testo: «Scenderemo nel gorgo muti».
       L'artista qui riesce a tradurre in immagine il tema della devastazione e, allo stesso tempo, del rapimento estatico che emana dalla figura femminile, mentre lo specchio con le sue parole cupe e minacciose rappresenta una sorta di superficie magica che perpetra l'inganno consueto della conoscenza di sé e del mondo. Tuttavia lo specchio rappresenta anche una sfida ai nostri meccanismi di percezione e interpretazione della realtà, offrendoci un'immagine "invertita" che induce ad una riflessione sulla natura stessa.
      Infine l'ultimo scritto di Cesare Pavese scelto da Fusillo come fonte ispirativa è la pagina conclusiva del diario Il mestiere di vivere, di cui l'artista assume alcune espressioni significative dello stato d'animo dello scrittore e della decisione di porre fine alla propria esistenza. Sullo sfondo color indaco sono disposte delle frasi incisive, a partire da quella che è assunta a titolo della raffigurazione stessa, «Ci vuole un po' di coraggio», seguita da un gruppo di figure maschili poste quasi in cerchio. Altre frasi, «non scriverò più» e «ci vuole umiltà non orgoglio» sono collocate a destra di chi osserva l'incisione, intervallate sulla sinistra dalla data «27 agosto» - giorno del suicidio di Pavese - e dal busto dello scrittore stesso.
    È importante osservare in questa acquaforte la scelta di Fusillo di focalizzare l'attenzione sulle parole di Pavese, mettendo in atto un montaggio che enfatizza, nel rapporto tra figure e testo verbale, la drammaticità della scena, quasi a fissare nel tempo e nella memoria un gesto, una volontà, una scelta definitiva.
     Se certo, dunque, queste opere sono un omaggio a Cesare Pavese, sono al contempo una rilettura e un'interpretazione che coglie, attraverso il linguaggio visivo, nell'invenzione delle forme, nella scelta drammatica dei colori, il lavoro più profondo e originale, e la tragicità e l'umanità delle vicende e della scrittura di Pavese

    Testo per il catalogo e la cartella di acqueforti "Incontro con Cesare Pavese" 2009

  • Giulio Sardi

    Giornalista

    Fusillo e Pavese al Cepam di S. Stefano

    L'Ancora del 10/01/2010

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  • Giuseppe Pallavicini

    Scrittore

    L'influenza gotica nella pittura di Concetto Fusillo

    Panorama di Novi

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  • Giuseppina Radice

    Critico d'Arte, Docente Accademia di Belle Arti di Catania

    La Lanterna del tempo 

     
    Giuseppina Radice

    Giuseppina Radice

    Non poggia su sette pilastri ma su tre, a mio parere, la pittura di Concetto Fusillo.
    Andiamo per ordine.
    “Il cielo non ha concesso la perfezione a un solo individuo. Soltanto un’arte combinatoria può addivenirvi” scrivevaGiulio Camillo Delminio nel 1550 nel suo Teatro della memoria, trattatodi grande importanza per quel tempo.
    Dalla celebre favola di Zeusi che, secondo Plinio, si sarebbe servito di cinque diverse modelle per realizzare l’effigie di Elena per il tempio di Crotone, Vasari derivava il concetto della selectio e della combinatio in senso tradizionale suggerendo in un certo senso all’artista di individuare aspetti del reale sempre imperfetto per realizzare l’opera d’arte perfetta.
    Per Gian Paolo Lomazzo teorico della fine del 500 invece, la selectio e la combinatio non devono essere attuate sul reale bensì sull’arte. “Colui che sarà in grado di far nascere in se stesso l’immagine del tempio e di servirsene nel modo giusto toccherà le vette dell’arte….il tempio rende sacro il sistema lo pone in accordo con il cielo”. Egli presenta con queste parole quel grande apparato immaginifico che è il tempio della pittura nel quale cerca di combinare le soluzioni artistiche più valide in vista della creazione dell’opera d’arte perfetta.
    Una domanda: ha senso al giorno d’oggi immaginare un artista che voglia far nascere in se stesso l’immagine del tempio per raggiungere le vette dell’arte con la creazione di un’opera perfetta?
    E in che senso perfetta?
    Perfetta, poi, in un momento storico come il nostro che sembra piuttosto rappresentato da quella Babele che nel tempo della Riforma doveva essere distrutta perché l’uomo aveva tentato di uguagliare Dio e le opere d’arte frutto della sua vanità dovevano essere bruciate, mentre ora, a detta di alcuni, esse sembrano distruggersi da sole.
    La babele sembra essere ancora un concetto contemporaneo: la confusione non manca e l’incertezza è ormai nostra compagna di vita.
    Quanto è possibile realizzare l’idea di un tempio come idea di un’immagine interiore visibile solo agli eletti che, costruito in armonia con il cielo si opponga alla torre?
    Penso che ogni rappresentazione aspiri ad essere giusta.
    - È tutto là, al suo posto, è perfetto, nulla manca, nulla è incompleto - così mi ha risposto senza alcuna supponenza Concetto Fusillo quando durante la nostra conversazione sulle sue opere gli ho chiesto in quale momento egli consideri compiuta, quindi giusta, la sua opera, e ha aggiunto, con corretto senso del relativismo culturale e senza falsa modestia - secondo me -.
    Come dire: quando il mio senso del colore, della composizione, della forma riesce a creare un circolo di significato autonomo; quando le possibilità che emergono attraverso una selezione tra  una sovrabbondanza  di ipotesi desiderate che non possono tutte adempiersi, riescono a creare una  forma significante che possa offrirsi ad un ulteriore processo di comprensione; quando gli elementi che compongono la lingua della mia pittura riescono a costituirsi in un insieme significativo.
    Non è anacronistico.
    Il tempio della pittura di Lomazzo, immagine cosmica, è un edificio di fantasia che poggia su sette colonne come il mondo che è governato da sette pianeti. Ogni colonna è personificata da un grande artista governatore dell’arte e ad ognuno di questi corrisponde una divinità planetaria, un metallo, un essere simbolico, un saggio e un artista dell’antichità. I sette governatori incarnano, ognuno, la perfezione raggiunta in un dominio dell’arte.
    La lanterna che lascia filtrare la luce è la sede dell’idea.
    Fusillo rappresenta ciò che conosce, che ama e con cui ha da tempo avviato un dialogo silenzioso ma costante, lasciando intuire, a mio parere, un rimando essenziale a qualcuno per il quale la rappresentazione è fatta. Il suo paesaggio di ruderi, legato ad un ricordo d’infanzia nella sua città natale, negli anni si è arricchito di case-torri, di castelli e di cattedrali del quale intuisce anche la fine (le costruzioni degli uomini non possono durare in eterno, forse nemmeno Dio perché una volta distrutto tutto, quando saranno morti anche gli angeli e le torri saranno dei mozziconi stagliati nel cielo non ci sarà più nessuno a pregarLo e ad invocare perdono per una redenzione e per l’ingresso in un paradiso ormai perduto) e che vuole, ciononostante, riscaldare e proteggere inserendo a volte un sole a volte un angelo, consente a quel qualcuno un riconoscimento che lo fa emergere, per così dire, come attraverso una nuova illuminazione dalle condizioni in cui in genere è sommerso: si conosce più di ciò che già si conosceva.  Egli riesce a creare  un nuovo ambito di realtà conchiuso, nel quale tutto giunge al suo compimento.
    È questo il momento in cui la realtà si trasmuta in forma e ciò significa, per dirla con Gadamer, che ciò che era prima non è più. Ma anche che ciò che ora è, ciò che ora si presenta nel gioco dell’arte, è il nuovo permanente.
    In questa sorta  di rapporto mimetico in cui non egli non esibisce alcun virtuosismo, ciò che è rappresentato viene quindi in luce in modo più autentico. Egli non copia, non ripete ma si sforza di conoscerne l’essenza.
    A mio parere egli trova nel suo personale, intenso rapporto con il tempo, l’essenza di un paesaggio riconoscibile appunto ma trasfigurato, trasmutato in forma, il surplus di significato che si intuisce, la sua immagine del tempio, quindi,  che gli serve per realizzare la “giustezza” delle sue opere.
    A lungo l’estetica e le teorie dell’arte si sono interrogate  sul ruolo che gioca il tempo nel nostro approccio ad un’opera d’arte. Se Kant ha ragione ogni opera d’arte, essendo oggetto di percezione, instaura un rapporto particolare col tempo.
    Ma di quale tempo si tratta nell’opera di Fusillo?
    Egli non intende affrontare la questione complessa di una fisica e metafisica del tempo in rapporto alla  fisica o alla metafisica dell’arte, né elaborare una teoria del tempo fisico o cosmologico.
    Coltiva però il pensiero di un tempo, come dire, biblico, universale attraverso il quale esprime la sua concezione di credente pessimista che gli fa dire che il tempo è dato solo da Dio che ne dispone nel tempo e nell’infinito; è un’arma che Gli serve per regolare i conti con l’umanità; si confronta con un  tempo storico che si individua nello studio continuo e nella passione per l’arte  medievale (presente, appena accennata, in alcune opere) e che si identifica nei  ruderi, costruzioni degli uomini sulle quali si posa  un’impalpabile polvere di eternità; vive gelosamente un tempo privato, un tempo strettamente legato all’esecuzione dell’opera, al suo rapporto personale, al dialogo che instaura quando si trova davanti alla sua tela bianca e che si intuisce nell’emergere di originarie tracce grafiche.
    Ecco allora  i tre pilastri ( non sette) su cui a mio parere poggia la sua pittura. La sua arte combinatoria non consiste nel selezionare solo aspetti del reale o dell’ arte. Egli cerca e seleziona sensi di tempo che combina per sperimentare e rendere concreta la sua energia vitale e che mi piace vedere come tre cerchi concentrici che contengono la pienezza del tempo.
    Il tempo, orizzonte del suo mondo, è l’idea che ha sede nella lanterna del tempio attraverso cui filtra la luce.

  • Massimo Novelli

    Giornalista "La Repubblica"

    Un libro alla settimana: Federico II in Monferrato 

    Ogni settimana il giornalista Massimo Novelli presenta best seller, racconti, gialli, libri di scrittori affermati e autori esordienti.

     
    Massimo Novelli

    Massimo Novelli

    I bei dipinti di Concetto Fusillo, artista siciliano che da tempo vive nella quiete antica di Mombaldone, nella Langa astigiana, illustrano il mondo poetico del XIII secolo alla corte di Federico II, fra Sicilia e Monferrato. Tutto ciò alla luce dei rapporti che intercorsero fra il Mezzogiorno e il Piemonte anche per l’amore fra il re svevo e Bianca Lancia da Agliano, da cui nacque Manfredi, il sovrano descritto da Dante "biondo era e bello e di gentile aspetto". Le liriche dei trovatori, di Jacopo da Lentini, di Cielo d’Alcamo, di Percivalle Doria e degli altri, rivivono nelle opere di Fusillo, un artista che sa reinventare la storia con lievità e maestria, nel libro pubblicato da Reverdito "Federico II. La scuola poetica siciliana e il Monferrato", che comprende testi dei poeti dell’epoca e gli oli del pittore siciliano.

    La Repubblica

  • Michele Tavola

    Critico d'Arte

    IMMAGINI SALVATE DALL’OBLIO 

    dalle parole al segno

    Un episodio a suo tempo clamoroso era scivolato fuori
    dal cerchio di luce della storia e si sarebbe perso
    irreparabilmente se il disordine delle cose e del mondo
    non lo avesse salvato nel più banale dei modi, facendo
    finire fuori posto certe carte, che se fossero rimaste al
    loro posto ora sarebbero inaccessibili, o non ci
    sarebbero più... L’Italia, si sa, è un paese disordinato e
    qualcosa fuori posto si trova sempre, qualche storia che
    si doveva dimenticare finisce sempre per salvarsi: ma
    io, che pure avevo avuto la fortuna di imbattermi nella
    storia di Antonia, e di Zardino, e della pianura
    novarese nei primi anni del Seicento, esitavo a
    raccontarla, come ho detto, perché mi sembrava troppo
    lontana. Mi chiedevo: cosa mai può aiutarci a capire
    del presente, che già non sia nel presente?
    Poi, ho capito...

    Sebastiano Vassalli, La chimera

     
    Michele Tavola

    Michele Tavola

    L’ispirazione di Concetto Fusillo nasce dalle parole.
    Parole antiche e arcaiche. Sepolte negli archivi dell’astigiano e dell’acquese, scritte secoli fa su carte che sono state ingiallite e impolverate dall’inesorabile scorrere del tempo, raccolte in pesanti faldoni e dimenticate. Parole che custodiscono la memoria storica di paesi dai nomi che al forestiero di passaggio possono sembrare evocativi e bizzarri, quali Castelletto d’Erro, Cremolino, Cavatore, Cartosio, Cassinelle, Grognardo, Bistagno, Denice, Melazzo, Molare, Montechiaro, Malvicino, Merana, Prasco, Pareto, Terzo e Visone. Parole salvate dall’acribia di Carlo Prosperi che le ha scovate, nel corso delle sue ricerche, e le ha riportate alla luce mettendole a disposizioni di chi abbia voglia di rivivere avvenimenti di epoche oscure e lontane. Dai documenti dei processi, redatti senza alcuna velleità letteraria, secondo le formule talvolta aride e talvolta esageratamente ampollose della giurisprudenza, emergono storie incredibili e fantastiche. Storie di guaritori e praticoni, di cialtroni e impostori, di masche e streghe, di fatture e malefici. Storie di superstizione e miseria, di credenze popolari e maldicenze, di peste e untori, di delitti e misfatti. Strane storie, che giungono da un Seicento fosco e inquietante, come quella del prete Giovannino che conquista il favore delle donne grazie a una polvere ottenuta pestando le ossa di una rana, la cui carne è stata divorata dalle formiche. Come quella dei cercatori di tesori di Montechiaro, guidati da un arciprete, un parroco, un indovino e un maestro di scuola, ai quali tocca la malasorte di essere schiaffeggiati nottetempo da spiriti e diavoli che li dissuadono dalla loro impresa. O come quella, ben più tragica e drammaticamente credibile, di Caterina Marenco, rimasta incinta dopo essere stata violentata dal fratello e per questo condannata alla berlina e ad abbandonare la diocesi.
    Le vicende e i fatti racchiusi nei documenti conservati negli archivi parrocchiali, diocesani e statali di tutta Italia sono quasi sempre al di fuori del cono di luce della Storia con la esse maiuscola, ma è proprio da lì che si può scoprire e capire il vero tessuto storico, sociale e culturale di un paese intero. Togliendo dall’ombra fatti come questi Alessandro Manzoni ha potuto scrivere la Storia della colonna infame, uno degli spaccati più vividi e forti della società milanese del XVII secolo. Allo stesso modo ha fatto Sebastiano Vassalli per raccontare le sconvolgenti ma quanto mai emblematiche vicissitudini di Antonia da Zardino, nel suo capolavoro La chimera. E così fa Concetto Fusillo con i suoi disegni, i suoi dipinti e le sue incisioni.
    Per lui, però, le parole sono solo un antefatto. Importante, fondamentale, ma solo un antefatto di quello che è il suo lavoro. Fusillo, infatti, traduce le parole e le storie in segno. La narrazione si fa per immagini che senza dubbio hanno un contenuto, un significato, ma che sono soprattutto forma e appartengono a un linguaggio squisitamente figurativo, non verbale. I fonemi seicenteschi, vergati sui documenti con una grafia arzigogolata ed elegante, benché spesso difficilmente intelligibile, si trasformano nelle mani di Fusillo in linee tracciate liberamente sui fogli, in segni che mostrano ai nostri occhi i seni procaci delle spogliarelliste di Cartosio, le lunghe corna del caprone che incarna il demonio, nella scena del processo alle streghe di Spigno, le alabarde e le spade dei lanzichenecchi che irriverentemente si sbronzano in chiesa e le massicce torri che difendevano i paesi della provincia piemontese.
    In questa esposizione, che accompagna i visitatori in un passato remoto fantastico e reale allo stesso tempo, si possono vedere quadri e stampe, ma sia i dipinti sia le incisioni trovano la loro genesi nei disegni che Fusillo esegue con instancabile costanza. Fin dagli anni Sessanta, quando frequentava l’Istituto d’Arte a Catania, è stato un infaticabile disegnatore e si può dire che, da sempre, dove finiscono le sue dita debba in qualche modo cominciare una matita. Le sue idee, generate dall’osservazione di un paesaggio o, come nel caso di questa mostra, dalla lettura di vecchie carte d’archivio, vengono fissate prima in quaderni, diari o taccuini, le cui pagine sono riempite, come in preda all’horror vacui, da una serie di segni veloci e nervosi che si sovrappongono, si sommano e si affastellano tra le pagine. Vale la pena di convincere Concetto ad aprire questi scrigni stracolmi di appunti, di spunti, di abbozzi e di tentativi. Solo così si può comprendere la vera natura della sua arte e la qualità più profonda della sua opera: un’opera che nasce, sempre e comunque, dal segno di una matita sul foglio di carta. L’ispirazione, come si diceva, proviene dalle parole e il risultato è sempre un’immagine che ci racconta una storia, ma si deve tenere presente che la mano dell’artista ha una sua memoria. La mano sa come, impugnando una matita, si possa dare forma a un volto o a un albero, con un tratteggio secco e rapido oppure con linee sinuose e vibranti. Da questi automatismi, dall’allenamento quotidiano ripetuto nel corso degli anni e dei decenni nasce lo stile inconfondibile e originale di Fusillo che, pur strizzando l’occhio ai modi dell’illustrazione moderna, affonda le
    sue radici nella storia del disegno rinascimentale e barocco, rielaborando la tradizione con grande personalità.
    Dai disegni, che sono l’idea, nascono le opere. Un medesimo soggetto può essere realizzato ad olio su tela o all’acquaforte e, a seconda della tecnica adottata, darà un esito formale assai diverso. Qui si deve sfatare un luogo comune duro a morire e si deve dire con assoluta chiarezza che l’incisione non è un surrogato della pittura. In questo senso, il lavoro di Fusillo è esemplare. Quadri e acqueforti riferibili allo stesso documento, infatti, quasi sempre presentano composizioni molto differenti tra loro perché differenti sono gli strumenti a disposizione. Ma anche quando le storie sono impaginate in maniera quasi identica rimane, tra la pittura e la grafica, un profondo scarto di atmosfera, di senso e di stile: un segno scavato nel rame dall’acido che morde il metallo non sarà mai riproducibile con un pennello intinto nel colore, e viceversa.
    Sfogliando la cartella intitolata L’altra medicina (che porta il suggestivo sottotitolo di Magia, superstizione, cronaca. Viaggio pittorico nel “Suol d’Aleramo tra il XVI e il XVII secolo) si trovano ventuno raffinate incisioni eseguite con cura maniacale e meticolosa lentezza. Ogni lastra è stampata su carta fatta a mano con inchiostri calcografici di differenti colori, scelti in consonanza con il tono e lo spirito delle vicende narrate. Per ogni matrice sono state realizzate innumerevoli prove di stato, prima di arrivare a un risultato che soddisfacesse l’autore, e i rami sono stati morsi e graffiati con accanimento per ottenere i giusti toni e i contrasti luministici desiderati. Qualche volta si conserva memoria delle parole, che Fusillo copia dai documenti e fonde alle sue figure, creando un effetto di notevole impatto visivo, definito da Gino Bogliolo, con uno straordinario neologismo, “archiviopittura”.

    Tratto dal catalogo della mostra "L'Altra Medicina, Magia Superstizione Cronaca sul Suol D'Aleramo" - Acqui Terme - 2009

    L'Altra Medicina (cartella di acqueforti) 

    Magia Superstizione Cronaca
    Viaggio Pittorico nel "Suol d'Aleramo" tra il XVI e il XVII secolo

     

    Storie di guaritori e praticoni, di cialtroni e impostori, di masche e streghe, di fatture e malefici. Storie di superstizione e miseria, di credenze popolari e maldicenze, di peste e untori, di delitti e misfatti. Storie strambe e oscure, che giungono da un Seicento fosco e inquietante. Come quella del prete Giovannino che conquista il favore delle donne grazie a una polvere ottenuta pestando le ossa di una rana, la cui carne è stata divorata dalle formiche. Come quella dei cercatori di tesori di Montechiaro, guidati da un arciprete, un parroco, un indovino e un maestro di scuola, ai quali tocca la malasorte di essere schiaffeggiati nottetempo da spiriti e diavoli che li dissuadono dalla loro impresa. O come quella, ben più tragica e drammaticamente credibile, di Caterina Marenco, rimasta incinta dopo essere stata violentata dal fratello e per questo condannata alla berlina e ad abbandonare la diocesi. Storie che la pazienza e la passione di Carlo Prosperi hanno sottratto all’oblio, riportandole alla nostra attenzione e, soprattutto, mettendole a disposizione della curiosità e della fantasia di Concetto Fusillo. La Zanfalla, povera vedova che si guadagna la vita curando la gente con erbe medicinali accusata di avere causato la morte di un bambino con la stregoneria, il parroco di Castelletto Val d’Erro, che in canonica beve smodatamente in compagnia di sgherri armati fino ai denti, Antonio Milano, sospettato di avere seppellita viva la moglie Zanina ammalata di peste, il notaio Giobatta Gulliero, che guarisce il male del freddo facendo inghiottire ai suoi pazienti bigliettini su cui è scritto il nome di Cristo, la levatrice Maria Fallabrino, considerata una strega dagli abitanti di Morbello, e Margherita Grattarola, che rischia il linciaggio e viene processata perché ritenuta responsabile del maltempo che guasta i raccolti, sono i protagonisti di storie che emergono dalle carte ingiallite dei documenti conservati negli archivi dell’alessandrino e dell’acquese. Storie che Fusillo ha reinterpretato e tradotto graficamente con la tecnica antica e alchemica dell’Acqua Forte, l’acido che morde il metallo, che scava nel rame e nello zinco per disegnarvi le forme nate nella mente dell’artista. Storie incise con la cura maniacale e la meticolosa lentezza proprie di questa tecnica. Storie stampate su carta fatta a mano con inchiostri calcografici di differenti colori, scelti in consonanza con il tono e lo spirito delle vicende narrate. Rosso di cadmio, giallo di cadmio, blu di Prussia, terra d’ombra naturale, terra di Siena bruciata, terra verde naturale.

    Testo per la cartella di acqueforti - L'Altra Medicina, Magia Superstizione Cronaca sul "Suol D'Aleramo" - 2009

  • Paola Toniolo

    Scrittrice

    Il pittore in cammino. 

     
    Paola Toniolo

    Paola Toniolo

    Quando Concetto Fusillo aveva avviato la sua ricerca di soggetti da esprimere o, forse meglio, da raccontare con la sua pittura pescando in un Archivio storico, assai probabilmente non sapeva dove sarebbe arrivato, e neppure, penso, dove avrebbe voluto arrivare.

    La prima raccolta, presentata con il titolo “Guidoni, grassatori e tagliagole nelle campagne astigiane”, sembrava voler accarezzare il gusto del “noir” che si trova in ognuno di noi e che, inconsapevolmente, ci affascina sempre un po’, ma il tratto duro e nervoso, i colori scuri, l’essenzialità del disegno paesaggistico ci facevano subito scendere in un inferno immaginifico in cui non c’era salvezza per nessuno: il dominio del male, dove non c’è più nulla di affascinante.

    Non poteva certo fermarsi qui la fantasia ricercatrice del pittore ed ecco la seconda collezione, che si innestava sulla prima, allargandone i confini: “L’altra medicina. Magia, superstizione, cronaca …

    Ritornava qui la stessa umanità dolente, con quel grottesco affannarsi di figure abbozzate, più nette nelle acqueforti, più volatili nelle pitture, ed anche qui non c’era salvezza. Ma con il suo desiderio di allargare lo sguardo il pittore ci proponeva anche drammi le cui radici, bene o male, cercavano di affondare nella speranza.

    Le streghe guaritrici si contrapponevano a quelle malefiche, a mitigare gli orrori della peste di Pareto si presentava l’appestata di Melazzo, che provvedeva con mente serena al proprio testamento. C’era poi il prete che accoglieva i briganti in canonica e festeggiava con loro, quello che conosceva i “secreti” per conquistar le donne … e si sentiva, dietro le immagini, un sorriso amaro, ma pur sempre un sorriso.

    La varietà dei soggetti, inoltre, poteva aprire qualche squarcio nel cielo plumbeo delle visioni precedenti, ma non c’era ancora nessuna liberazione, nessun volto si alzava verso il cielo. L’umanità peccatrice scontava ancora i propri peccati.

    E si capiva che Concetto ne soffriva personalmente.

    La sua ricerca sul male tra gli uomini non era ancora finita e, soprattutto, non era arrivata a riconoscere il bene. Ecco aprirsi dunque, quasi come una sfida, un nuovo percorso: chi può guidare l’umanità a riconoscere il male e guardarsene? chi può guidarlo verso il bene? cos’è il bene?

    Un pittore non può essere un filosofo, il suo modo di indagare e comunicare è diverso, tanto più per uno come Concetto, che si districa tra le carte e s’immerge nel particolare di vite difficili. Ancora una volta gli uomini emersi dagli archivi, che parlano con la voce fermata su un attimo della loro vita, potevano diventare le guide nella ricerca.

    Ed ecco la scoperta nuova: i sacerdoti. Non sono forse essi coloro che, nel corso dei secoli cristiani e nelle nostre terre, ci hanno parlato del bene e del male, del libero arbitrio, dell’armonia originaria tra Dio e l’umanità, del nostro bisogno degli altri oltre che di Dio…

    E sul cammino della ricerca Concetto trova, finalmente, non il Bene assoluto, ma il bene umano, che in realtà non è prerogativa di una categoria di persone, perché tutti, anche i sacerdoti, possono peccare, e peccano. Così, nel quotidiano vivere di un mondo violento, che tale era nei secoli passati come in quelli moderni, il pittore trova finalmente anche esempi di correttezza, onestà, impegno, abnegazione, carità, offerta. Ed è cosa importante, perché è la vita concreta, la vita vissuta, ispirata e guidata dal bene, quella che sa parlare alle persone, che sa guidarle, stimolarle, consolarle, soprattutto gli ignoranti contadini, sfruttati e disprezzati, tra i quali essenzialmente Fusillo trova i soggetti dei suoi dipinti. E il tratto si fa meno spigoloso, meno concitato, i colori più chiari, e si apre anche qualche sprazzo di luce e qualche volto si alza verso il cielo.

    Non c’è ancora, evidentemente, la liberazione, perché anche l’uomo di questa nuova collezione d’immagini è un essere sofferente, confuso, fatto di terra e lacrime, ma è un po’ come quando, dopo una catastrofe, per esempio un terremoto, gli scampati, feriti e impolverati, escono faticosamente a cercare la luce.

    Nelle nuove opere del pittore possiamo trovare quindi nuove occasioni di elevazione, che non è tema del tutto estraneo alle sue corde, come abbiamo potuto vedere nelle opere ispirate ai poeti della corte siciliana di Federico II di Svevia, ma in quelle c’erano tutti i più teneri e appassionati sentimenti terreni, legati ai sogni più intimi e alle più raffinate armonie, in queste c’è qualcosa di diverso, più incisivo, più sofferente, più universale, aperto ad un più ampio sentire.

    La ricerca non può terminare qui, forse non potrà terminare mai.

  • Paolo Giansiracusa

    Docente Universitario di Storia dell'Arte

    Colore in omaggio alla Corte di Federico, tra poesie d’amore, canti e preghiere. 

     
    Paolo Giansiracusa

    Paolo Giansiracusa

    Come possono il colore e il segno del nostro tempo, ordito della modernità, intrecciarsi alla trama di un’età trascorsa, lontana dal ritmo dell’età presente?
    Concetto Fusillo ha provato a farlo calandosi nel passaggio di luce di Federico di Svevia, stupor mundi, imperatore di un regno dalle dimensioni continentali.
    L’artista ha attraversato con coraggio e sentimento la grande stagione della poesia dell’età sveva e con la forza del suo mestiere, grazie ad una figurazione dal segno immediato e veloce, ha raccontato per immagini le vicende salienti di un passaggio fondamentale della cultura europea. Quello in cui Federico, contro ogni sollecitazione di parte, si staglia come figuracarismatica del suo tempo, come artefice attualissimo dell’unione tra i popoli del Mediterraneo e dell’Europa. E così, grazie allo spirito di tolleranza e al sentimento di solidarietà, si fa fautore della parola libera che sgorga in espressioni d’amore o in laudi delicate.
    Il ciclo di opere di Concetto Fusillo dedicato a Federico e alla sua scuola poetica, attraverso i toni caldi e vaporosi della sua tecnica pittorica, racconta di un mare nostrum prorompente, di un imperatore dall’ampio petto vestito di colline, solcato da popolazioni solari che, nonostante le difficoltà di un Medioevo di guerre, pestilenze e malattie, seppero apprezzare il valore della vita e fecero della solidarietà e dell’amore la bandiera del dialogo e del confronto.
    Lontano dagli accademismi, l’artista dipinge con passione, spargendo pennellate cariche di colore con la forza di una Primavera incontenibile. Davanti al supporto inanimato, il suo pennello si fa fonte di energia pura e con tessiture aeree costruisce sogni e passioni, spazi sconfinati, forme tornite, processioni regali e scritture dall’armonia musicale.
    Il mondo federiciano, i canti d’amore e le preghiere più intime, le piccole città turrite e le raffinate corti regali, attraversano come un fiume in piena l’intelligenza creativa di Fusillo e dal pensiero dell’artista germogliano fioriture di parole, di gesti regali, di graffiti  sentimentali. I colori ora accesi, ora teneri, posati con saturazioni che svaporano come ricordi lontani, lasciano l’impronta indelebile di un passaggio regale che e anche traccia originale del fare dell’artista.
    Il ciclo dedicato a Federico ha tutto il profumo di un’età lontana ma ancora attuale per l’insegnamento che essa racchiude.
    L’artista ha come cercato nell’aria i valori primari di un tempo perduto, il bagliore lontano di una luce trascorsa, la bellezza di una stagione costruita non solo sui valori estetici ma anche su quelli morali, sociali, politici.
    La successione delle scene è concepita come quella di un affresco antico contrassegnato da versi poetici e da canti d’amore che, nel tempo del cantico di Francesco d’Assisi, danno il senso di un’altra dimensione della parola. Parola libera come un fiume in piena, parola contaminata di passioni, parola che rallegra il cuore e da voce all’amore.
    Fusillo con questo nuovo contributo artistico ci insegna che il passato è humus  indispensabile, energia insostituibile di ogni progetto destinato a trovare concretezza nel  divenire.
    Rendere onore al proprio passato e compito, dovere, di ogni società civile. Chi non rispetta il passato della propria terra, chi non ha memoria della propria gente, e assegnato ad un destino infelice, poiché senza identità, senza volto.

    Tratto dal catalogo "Federico II, la scuola poetica siciliana e il Monferrato"- 2012